“A te io appartengo, sia fatta la tua volontà.”
Palle vuote ora. Ora il capo chino a guisa di penitente. Gli occhi appoggiati, biglie vuote sulla veste che si gli era accartocciata come un nido nero attorno alle scarpe. Nere anche le scarpe, da tennis, brutte. Paffute grosse gonfie, vicine alla disabilità o all’anzianità.
Di anni ne portava ventinove, eppure il suo corpo parlava di una verginità bambinesca. Eppure i peli, più fitti attorno ai capezzoli e alle clavicole, arrotolati come code di maialini matti di gioia. Eppure il sudore del fondoschiena nelle giornate afose di giugno: odore grasso livido, desiderio macchiato dalla vergogna. Percepiva quanto erotica fosse agli occhi dei fedeli la messinscena del suo celibato? Godeva sapendo di far godere? Era invece del tutto ignaro? E lui lui come godeva? Di cosa godeva?
Perché noi, noi ai piedi dell’altare, noi le labbra aperte sulle sue unghie tagliatissime per mangiare il corpo consacrato, noi altri noi chi noi gente fatta di peccato di piacere di pressione di peccato di piacere di pressione, non potevamo fare a meno di domandarci se ciò che lui più amasse fosse mettere in scena la propria fame nel più sacro dei palcoscenici. Ci sono prime donne che si coprono fino all’invisibilità pur di essere notate.
Lui? Lui immaginava sognava di esser compatito, o piuttosto di esser concupito fino alla blasfemia? Lui che non smetteva, respiro dopo respiro sospiro dopo sospiro masturbazione dopo masturbazione omelia dopo omelia, di ripetere: “A te io appartengo”.
Gli attacchi di cefalea a grappolo si erano fatti più lancinanti nelle ultime settimane. A circa un’ora dall’addormentamento, dal retro dell’orbita destra iniziava a pulsare una forza scura che nemmeno gli antiemicranici erano in grado di sedare. In questo male nel mezzo di questo male –cioè nel fondo, nel fondo del suo letto singolo nel fondo delle sue lenzuola poco pregiate bianche bianchissime candeggina candegginissima nel fondo del suo corridoio candeggiato nel fondo della sua parrocchia candeggiata nel fondo della notte sola come un segreto – lui pregava, diceva preghiere più vicine al grammelot che ai salmi, chiedeva perdono e perdono e ancora – l’occhio ora lacrimava di gocce cristalline – perdono. Perdono e non sapeva per cosa, perdono pur che quella tensione dolorosa abbandonasse il corpo ad esso concedesse come ad un nemico indebolito qualche ora di tregua l’illusione di una ritirata la bugia ecco la bugia. Perché le aveva mentito? Era a lei che desiderava appartenere? Appartenere poteva essere una scelta un desiderio oppure era un destino?
Rotocalchi sbiaditi, dettagli di lei di un venerdì piovoso, l’ocra del velluto fasciava i suoi fianchi morigerati, un’unghia spezzata spuntava dalla manica della giacca aperta, il labbro gonfio dalla disidratazione, il capezzolo che aveva lasciato un’increspatura sul cotone, l’impressione di gomiti appuntiti e fragili. Il corpo di lei era diventato un pensiero di lui. Non era riuscito a dire niente se non con l’affanno del respiro. Lei lo aveva sentito?
Trasformazione degradazione trasformazione degradazione. “Cosa mi sta succedendo cosa vuoi che mi succeda come vuoi che mi succeda quale è la tua volontà?”
Genuflesso di fronte alla settima stazione – un affresco molle, i profili delle donne indistinguibili dal marrone del paesaggio, fogliame denso come nuvole – non riusciva a toccare la coda dei suoi desideri. Nel vuoto che la chiesa del Santissimo Redentore regalava il primo pomeriggio, i suoi tormenti si facevano torri di fumo, aria calda che saliva verso le arcate in cerca di rarefazione: eppure lei le lettere del suo nome il suo nome intero rinasceva, tornava a nascere, puntini neri sotto le mandibole il mattino dopo una rasatura dal barbiere.
Trasformazione o degradazione il pensiero – il pensiero nobile, cosa è l’amore – no: il pensiero si era fatto calore sotto le ascelle ed una goccia fredda ghiaccio ghiaccio secco gli era caduta sul costato. Una nuova trasformazione una nuova trasformazione il pensiero stava facendosi sussurrio, la bocca impercettibilmente aperta – non importa se qualcuno mi sente, sentimi tu, questa è la mia voce – stava nascendo una preghiera?
“Se hai disegnato questo corpo no mi spiego meglio se hai disegnato queste palle grandi quanto melograni non quanto mongolfiere se hai disegnato un tubo di deflusso se hai disegnato queste cellule perché continuino a proliferare a farsi succo incessante a farsi vita, nell’astinenza che mi chiedi mi stai chiedendo di cancellare il tuo disegno?”
Chi stava chiedendo, cosa stava chiedendo, quale chiedere ascoltare. A chiedere ora era il suo corpo, il suo corpo piccolo piccolissimo infinitesimamente piccolo unico diviso da ogni altro corpo circostante. A chiedergli. Il suo corpo – non ancora nella sua interezza, piuttosto un groviglio di nervi che separava la radice delle palle dal buco del culo, una gemma rossa incastonata nel pavimento pelvico – spingeva a lei e su di lei voleva appoggiarsi, passerotto sul davanzale di un boulevard trafficato di città.
Le ginocchia avevano cominciato a fargli male ed il malumore l’aveva avvolto come un impermeabile bagnato. “Non so se si tratti di trasformazione o degradazione, ma questo pensiero ha smesso di essere un pensiero”. Si mise a camminare lungo il transetto come se stesse guadando un fiume di fango. Scarpe nere stivali di gomma guardò la chiesa vuota si scoprì aperto e imbarazzato in un sorriso tutto di gengive. Scarpe nere ballerine rosa prima di inforcare la porta che portava alla sagrestia che portava fuori – dentro fuori fuori dentro dentro la testa fuori di testa che male la testa che brutto male – scoppiò in una piroetta: nessun pensiero, nessuna volontà, nessun dolore.






