Invisibile, ovunque

Storia di:

Illustrazione originale di Lorenzo Lodovichi

La prima volta ho leccato il bordo del tuo lavandino.

Ho visto che ti eri fatto la barba. Ti ho immaginato a torso nudo, l’asciugamano arrotolato sui fianchi, tu sporto leggermente in avanti concentrato nello specchio, e il tuo bassoventre appoggiato alla porcellana fredda.

È bastato quel pensiero, come una scossa elettrica. Ho perso il controllo e mi sono cedute le gambe.

Sono crollata su quella porcellana fredda, mi ci sono aggrappata.

Ho chiuso gli occhi e ci ho passato la lingua.

Una volta. Poi un’altra, poi un’altra ancora.

Da allora, non mi sono più fermata.

Oggi è lunedì. Giro le chiavi nella serratura, la porta di casa tua si apre. Come ogni volta, inalo forte. Il tuo odore mi arriva addosso come una mano alla gola, poi scende, e mi gira intorno come un cane che mi fa le feste. Mi fa male lo stomaco ancora prima di varcare la soglia, mi devo appoggiare. Respiro ancora più forte, provo a mandarlo giù. Per assumere ogni droga c’è una procedura precisa, e questa è la mia. Prendo più aria possibile e trattengo il fiato. Dio. Ti sento entrare dalle narici e diffonderti nel corpo, arrivare ovunque portato dal mio sangue impreparato e euforico, stalloni in panico al galoppo nelle vene. Chiudo gli occhi e sorrido.

Eccoci.

Mi gira la testa, va bene così.

Io sono invisibile.

Vivo al bordo esterno della tua vita.

È una vita intera che sono invisibile. Mi sono abituata a prendere tutto il niente che riesco, e a farne il mio impero.

Con una mano sopra al seno, cerco di regolarizzare i battiti. Tolgo le scarpe e le sistemo all’ingresso occupando, come sempre, il minor spazio possibile. Appoggio le borse per terra e mi richiudo la porta alle spalle. Mi ricompongo e dico a bassa voce, a nessuno -Ciao. Sono qui.

Sono la tua donna delle pulizie.

La tua donna me lo tengo in bocca come un boccone grosso, una preda vinta.

La scorsa volta che sono venuta qui, venerdì, ho leccato il tuo pettine.

L’ho leccato di lato. Tutto, dall’impugnatura all’apice. Poi sulla fila dei denti. I suoi denti, i miei denti. Uno a uno. Lì l’ho leccato piano, con la punta della lingua, un millimetro di lingua, una papilla gustativa sola, come se mi abbeverassi da un petalo. La mia saliva tra un dente e l’altro, come rugiada all’alba sui fili d’erba.

L’ho leccato per un’ora intera.

Le mie colleghe dicono che sono stata fortunata, che in questo palazzo ci stanno gli uomini puliti. È l’edificio più bello tra quelli che gestisce l’impresa, qui ci mettono solo le persone importanti. Alcuni si portano dietro la famiglia, tu no, però so che hai una moglie e due figli, l’ho visto nella foto che tieni in sala. Le mie colleghe dicono che spesso quel genere di foto se le ritrovano distese, con le cornici messe a dormire a pancia in giù, come a chiudere loro gli occhi. Loro le spolverano e non sanno cosa fare. Le più anziane le risollevano. Una mia collega dice che nell’appartamento che pulisce lei, il manager che ci abita lascia sempre la fede nella ciotolina un po’ defilata all’ingresso, insieme alle monete da due centesimi e qualche scontrino accartocciato. Tu si vede che in questa casa ci stai poco. Ogni volta sono pagata tre ore, ma c’è davvero poco da fare. I pavimenti rimangono puliti come li pulisco io, non cucini mai e anche il bagno lo usi appena. Ho visto che hai la borsa della palestra del residence. So che lì ci sono le docce e si possono anche lasciare i vestiti sporchi, ti restituiscono tutto lavato e stirato. A me rimane questo appartamento asettico dove cercare tracce di te. Una sola volta ho trovato le tue lenti a contatto, buttate nel cestino della spazzatura. Un cestino in vimini come nuovo, vuoto, senza nemmeno un sacchetto di plastica all’interno. Le ho recuperate dal fondo, le ho tirate fuori e le ho leccate con la punta della lingua. Come fossero capezzoli, come fossero piccoli insetti.

Ti leccherei gli occhi.

Te li terrei aperti tra l’indice e il medio mentre ti lecco l’orbita.

La mia saliva come rivolo di lacrima tra le tue ciglia.

L’ingresso dà su il tuo salotto. È una sala grande, luminosa. I divani mi danno le spalle. A volte ti immagino seduto a leggere, mentre ti volti e il tuo viso si illumina quando mi vede. Oppure penso che ti affacci dalla cucina, con il grembiule addosso perché stai cucinando per me. Ti immagino come voglio perché è l’unica cosa che posso fare. La mia zattera.

Tu fai velieri? All’ingresso del residence, c’è un tavolo con le riviste specializzate del tuo settore, credo, e ho visto la tua foto sulla copertina di un giornale. Ho sentito un colpo al cuore. La tua azienda ha comprato uno stabilimento vicino al villaggio in cui sono nata. Mi ha fatto impressione vedere il tuo nome vicino a qualcosa di così lontano dentro di me, di così mio, schiacciato in fondo. Quella sera sono andata a leggermi il sito del quotidiano locale, ho trovato un articolo in cui parlavano di te, e poi dicevano che si cercano operai. Grandi investimenti, manodopera a basso costo, come capita spesso da quelle parti. Ci andranno a lavorare i miei compagni di orfanotrofio, forse anche mio fratello. Non lo so, con lui non parlo più da tanti anni. Però vedi? Giriamo tutti intorno a te, sei uno di famiglia ormai.

Di carne, di corpo, ti ho incontrato una vola sola.

Oggi sono fortunata, nel lavandino c’è la tazza con cui bevi il caffè al mattino. Lo prendi amaro, senza zucchero. Il cucchiaino non c’è mai. Nemmeno quello mi lasci.

Nel silenzio assoluto intorno a me, anche io mi muovo senza fare rumore. Raccolgo la tazzina e la esamino attentamente.

Piccolo tesoro, in controluce intravedo la parte dove hai appoggiato le labbra. Fisso il segno della tua bocca, questa mezzaluna sacra sul bordo della tazza, sul bordo della ragione. Me l’avvicino al viso, rimango ferma a respirarti. Odore di caffè, di ceramica fredda, impressione di uomo. Me la passo a pochi millimetri dalla guancia e poi appoggio le mie labbra sulle tue. Con un gesto preciso, religioso, ti ricalco. Aderisco, combacio. Mi sento. Comincio a succhiare.

In residence come questi, i manager restano un anno, massimo due. Fra poco te ne andrai e io non avrò più niente di te.

Succhio. Prima piano, poi sempre con più forza, come per estrarre il veleno da un morso. Come se ci fosse un nettare, come fosse l’unico nutrimento che mi tiene in vita, io succhio.

Dove hai bevuto tu, io bevo te.

Ci baciamo così.

Quanto tempo passa? Ho un piccolo fremito e mi viene da piangere. Inizio a leccare. Lecco disperata, lecco lenta, poi di nuovo lecco come se stessi per affogare. Premo la lingua sulla superficie, sempre di più. Prendo il più possibile. Mischio le mie cellule alle tue. Deglutisco tutto.

Quella volta che ti ho incontrato, sei stato gentile. Io ero venuta prima del solito, e tu stavi uscendo. Eri al telefono, parlavi in inglese. Quando ho aperto la porta e ho visto che c’eri, mi sono spaventata. Pensavo ti arrabbiassi, non avevo nemmeno citofonato, l’agenzia ci ha detto di farlo sempre, ma io ho perso l’abitudine, non c’è mai nessuno. Tu invece mi hai sorriso e mi hai fatto cenno di entrare. Hai continuato a parlare al telefono, e mentre entravo ci siamo sfiorati. Non ti avevo mai avuto così vicino. Non ho nemmeno avuto il coraggio di guardarti negli occhi. Ti sei chiuso la porta alle spalle e io sono rimasta immobile, non so nemmeno per quanto. Poi di colpo sono crollata per terra.

A quattro zampe, ho leccato il parquet dove eri passato tu, fino a farmi male, fino a sentire dolore ai muscoli del collo. La mia saliva lungo il tuo passaggio, velo bagnato di sposa nel corridoio della chiesa. Ora tengo la tazza con entrambe le mani, la chiudo nella conca dei miei palmi e la guardo. Mi sale una frenesia strana, un’ansia. La lecco ovunque. Mi spingo dentro, tocco il fondo con la punta della lingua, lecco via il fondo di caffè, ogni residuo, la rigiro per non perdere nemmeno un millimetro della parete interna, risalgo sui bordi e inizio a leccare tutto l’esterno, con la lingua aperta, larga, come la lingua delle leonesse, come i pennelli piatti per le grandi campiture. Lecco. Vado avanti, ora con lentezza e meticolosa precisione, una pennellata alla volta. L’impugnatura, che tu terrai tra l’indice e il pollice, la succhio. La succhio come se tra le labbra avessi le tue dita, la stringo come se con quelle due dita tu sollevassi me.

Sono Icaro in volo. Mi fa male la bocca, ma non voglio smettere. La lecco ancora, fino a sentire i muscoli della lingua che si induriscono. Io, anche, sono tutta bagnata. Mi fermo un attimo e la bacio piano. Riprendo fiato mentre la copro di piccoli baci. Ovunque, ora con labbra delicate e premurose che la sfiorano appena, come baciassi una bolla di sapone.

Appoggio la tazza e la guardo. È il mondo che abitiamo insieme.

Unico punto di contatto delle nostre due vite.

Mi immagino te domani mattina. Tu che la prendi dalla mensola, la metti sotto al rivolo del caffè della macchinetta, la togli e te la porti alle labbra. Eccomi.

La metto via così.

La metto via umida della mia saliva.

Eccomi, io ci sarò.

La ripongo sulla mensola, sopra al suo piattino che non usi, girata sottosopra come le altre. Ma le altre le spingo più in fondo. Lei la lascio così, in primo piano, prima ballerina sul palco, come io non sono mai stata.

Prendi lei. Prendi me.

Sono invisibile. Non esisto.

Però tu, domani, tra le labbra avrai me.

Io che volevo solo pronunciarti.

Tenere il tuo nome in bocca come fosse una cosa mia, una cosa naturale, che mi apparteneva come i denti, come il palato, come questa lingua, che ora passa sopra qualsiasi cosa ti appartenga.

Cadi Icaro, è finito il tuo tempo, è ora di andare via.

Raccolgo le mie cose e esco. Come ultima cosa, mi chino di sbieco sulla maniglia esterna della tua porta.

Me la infilo in bocca, labbra strette e umide, lingua larga e calda. Una passata sola, tremano anche i muri.

Stasera la prenderai in mano per entrare.

Bentornato, amore mio.

Non sai chi sono, non mi vedi, non mi ami.

Io sono invisibile, ma io sono ovunque.

  • Te l’ho data

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  • Bianca, come una mosca

    Bianca, come una mosca

  • Cessica

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  • Bramire

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  • Bzzz

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  • Invisibile, ovunque

    Invisibile, ovunque