Emma

Storia di:

Illustrazione originale di Lorenzo Lodovichi

Emma era la donna di servizio. A vederla da lontano sembrava proprio una donna di servizio. A lei il termine non piaceva, ma neppure collaboratrice domestica. Se le chiedevi cosa facesse per vivere ti rispondeva semplicemente: io lavoro. E su quell’io si sentiva un accento, perché Emma era orgogliosa di se stessa. Non stava con nessuno, e nessuno la manteneva, tantomeno un uomo.

Quando prese a lavorare a casa nostra avevo diciassette anni, Emma più di cinquanta. Né alta né bassa, le forme generose, una cesta di capelli ricci nerissimi. Ma io la osservavo sempre, con attenzione, sempre. Erano i dettagli che mi interessavano. C’era una gran differenza tra vederla da lontano e osservarla da vicino, nel tepore della casa, al riparo dal sole. Dentro si muoveva a suo agio, con eleganza, fuori no. Fuori, nel sole caracollava, gettando un ombra grande e informe sul terreno.

Ma parlavo dei dettagli, e per i dettagli bisogna stare vicini. In quel periodo studiavo sempre a piano terra, e lei puliva il soppalco, poco sopra il mio punto d’osservazione. Cominciai così in realtà, perché mi accorsi di una roba da niente, che non era facile notare da un’altra posizione.

Le caviglie, terminali di un sedere grande, morbido e di cosce forti, erano sorprendentemente delicate. E i piedi, affondati nella grandi ciabatte di gomma, coperti sempre dalle calze di nylon, erano affusolati come punte di lancia. Le dita perfettamente proporzionate dietro la cucitura di rinforzo, il tallone emergeva un poco. Il malleolo e l’arco del piede erano forti, ad angolo ma dolci. Che cosa avevano a che fare i piedi e le caviglie, con tutto il resto? Intuivo delicatezze, un senso per le cose raffinato e strano. Il tutto deposto in un luogo inaccessibile, volontariamente mascherato e contraffatto. Il corpo di Emma aveva dei segreti.

Sempre coperta da pantaloni spessi, jeans e maglioni e maglioncini che la occultavano fino al collo, non si scopriva mai. Non mi rimanevano che le estremità.

Le mani anche, quando non erano affondate nei guanti di gomma rivelavano un andamento dolce, mai incerto. La funzione tattile era tanto sviluppata in lei che quasi non la sentivi mentre caricava la lavastoviglie o toglieva la polvere. Non portava mai anelli, e non c’era ruga o vena che ne cambiasse la pasta, tenue sì, ma viva. Solo le unghie erano sempre laccate, rosa tenue anche quelle. Il collo ombreggiato dai ricci e le orecchie, piccole e attaccate alla testa non si vedevano, quasi mai.

Ma nel volto adesso riuscivo a scorgere altre cose. Grazie a quello che avevo appreso dalle periferie adesso il suo centro mi parlava. Grandi palpebre coprivano occhi verdissimi, il naso con le pinne rilevate ad arco come si trova in certe donne della bassa padana, da dove veniva. La bocca grande, carnosa ma composta, raramente aperta in sorriso. Un volto passionale diremmo, ma che non si offre. Io mi limitavo ad osservare, e solo gli occhi la cercavano sempre.

Ogni tanto veniva la mia ragazza, Francesca. Mi aiutava con matematica, la sola materia in cui non sono mai andato bene. Francesca mi riprendeva, mi scuoteva, stai sui numeri diceva. Non era facile quando Emma era in giro. Francesca non si accorgeva di nulla, e in fondo il nostro non era un rapporto. Stavamo e non stavamo insieme, e lei mi voleva bene ma non era innamorata, me lo aveva detto. Io non avevo replicato. L’amore lo avevamo fatto un paio di volte, ma senza quel ché, in macchina di lei nel parcheggio dietro casa. Perché Francesca aveva già il foglio rosa. Era stato più esplorare la scomodità di farlo, dirci che potevamo. Solo una volta lo facemmo a casa mia, proprio mentre Emma era in casa. Fu anche l’ultima. Mentre eravamo a letto, nel letto di mia madre perché Emma stava pulendo la mia camera, la porta si aprì ed Emma mi vide e io vidi lei. Francesca era voltata di spalle e non si accorse.

Emma per la prima volta sollevò le palpebre bene in alto. Nulla mutò nell’espressione, solo gli occhi si spalancarono per qualche secondo. Poi quelli di lei si abbassarono di nuovo, le saracinesche si chiusero, la porta tornò ad accostarsi.

Dopo questo fatto per molto tempo evitai di stare in casa quando c’era Emma. Non era solo esser stato scoperto, piuttosto essere stato visto, visto davvero. Eppure ci pensavo.

Ogni tanto chiedevo a mia madre, quando aveva tempo per me. Indagavo, ma che vita fa Emma? È un po’ che lavora da noi e non ne so nulla. Ha una famiglia?

Mia madre sapeva, cioè quello che sapevano tutti tranne me. Emma veniva da una famiglia, come si dice, caduta in disgrazia. Suo padre era un mezzadro, che era diventato proprietario, e da povero ricco. Ma era anche un uomo violento, che alzava la mani. Anche la moglie e le figlie, diceva, e la moglie era una donna timida e sottile, che proprio non si sentiva mai.

Aveva la passione per le donne l’uomo, e a forza di donne s’era beccato una malattia da secolo scorso. La sifilide. Era morto pazzo, e i soldi se n’erano andati già da tempo, con la casa e tutto.

Così Emma e sua sorella s’erano date da fare, all’inizio pulivano alle medie ma niente contratto, quindi lavoravano dove capitava. Finché la sorella, Giuliana, che era tanto bellina e non come Emma, così riservata e scura, s’era fidanzata con uno di Milano ed era andata a vivere con lui. Ma anche lì.

Eh insomma, sembra che Giuliana si sia trovata uno come il padre, che beve.

Mia madre era sovrappensiero, questa storia la costringeva a porsi delle domande, il filo del discorso portava oltre.

Che pensi?

Faceva spallucce.

Mi chiedo perché, ecco. Perché una donna debba cercare qualcuno che somiglia al padre.

Voleva dire, a un padre del genere.

La domanda rimase a mezzo, nell’aria per diversi giorni, così decisi che volevo rivederla. Confrontare queste cose che sapevo adesso, di nuovo rubare con gli occhi informazioni al suo corpo. Costringerlo a parlarmi, perché a voce non avrei saputo.

Rientrai prima e la trovai in cucina. Non c’eravamo più incrociati da quel giorno. Vedendomi era sorpresa, mi sorrise.

Che fai?

Lavoro.

Restai lì per un certo tempo, ad osservarla, fingendo di fare altro. Lei finse di lavorare. Io finsi di non guardarla. Finse di non accorgersene, che non le importasse. Finsi allora di perdere la presa sui fogli che avevo in mano, i fogli mi presero sul serio e si sparpagliarono. Lei finse di spostarsi fino al mio tavolo per aiutarmi a raccoglierli. Entrambi in ginocchio sui fogli, continuavamo a fingere che ci interessassero.

Avevo già in gran parte consumato quel corpo, almeno le informazioni che mi erano concesse le avevo frantumate e deglutite, ma c’erano altri modi per prendere. Lei era vicina, in terra carponi come me e sentivo finalmente il suo odore. Era denso e buono. Per un po’ mi accontentai di questo, mentre i fogli venivano riportati in ordine, pagina settantasei, settantasette eccola qui. Il suo grosso corpo si muoveva bene, come sempre.

Ma poi mi venne il pensiero di toccarla. I piccoli piedi le uscivano dalle ciabatte e pensai, ma era un qualcosa di troppo veloce per essere davvero un pensiero. Le presi la caviglia, la periferia ancora mi bastava, e mi chinai a baciarla.

Emma si voltò. Fermo.

Ero paralizzato e non osavo guardarla, fissavo intensamente i fogli cercando di anagrammarli, di tirar fuori da quelle parole scomposte una frase che avesse un senso.

Scusami.

La sua mano mi accarezzò la testa, così lievemente, sfiorando appena le punte dei capelli.

Ascoltami…Sei giovane. Ma non è questo.

E allora?

Non ti piacerebbe.

Perché?

Ho visto come lo fai con la tua fidanzata.

Non è la mia fidanzata.

Non ti piacerebbe lo stesso.

Perché?

Perché perché. È così e basta.

Mi fece rialzare, si ricompose. Poggiò i fogli, mi salutò con un sorriso e se ne andò. Per qualche giorno si diede malata, e pensai di averla perduta per sempre, ma mi sbagliavo.

Un giorno rientrai a casa e la vidi lì, con mia madre parlottare. Quando mi videro smisero di parlare, ma capii subito che non ero io l’argomento. Mia madre mi accolse col suo solito fare allegro e distante, e mi spiegò che Emma ci salutava. Stava dando le dimissioni. Chiesi allora, perché non potevo non farlo.

Perché?

Emma spalancò bene gli occhi e me li gettò in faccia. Mia sorella che abita a Milano, disse. Aspetta un bambino e dovrò stare con lei per un po’.

Quando parti?

Tra due giorni. Sarò da voi domani, in mattinata. Poi basta. Mi ritirai in camera mia, mia madre uscì, Emma pure. Dormii male. Durante il sonno ebbi un orgasmo, un orgasmo di mani e di piedi e palpebre pesanti che si spalancano e si chiudono, si espandono e si rapprendono come palloncini. Linee e punti che si increspano e si distendono.

L’indomani avevo la febbre e mia madre fu contenta di lasciarmi a casa. Dopo un po’, ecco: i rumori lievi di Emma in casa nostra. Cercavo di capire cosa stesse facendo, di osservarla attraverso i muri: puliva forse la credenza, il piano cottura?

Sentii bussare. Era Emma che mi portava una spremuta d’arancia. Nell’altra mano reggeva una borsa di panni. Posò la spremuta, poi si sedette sul letto, una confidenza tutta nuova.

Grazie Emma.

Ho bisogno che mi aiuti.

Dimmi.

Tua mamma, mi ha regalato dei vestiti suoi. Ne ha tanti, ma io non so scegliere. Mi avvicinò le mani alla fronte come per sentirmi la febbre, ma senza toccarmi. I pochi millimetri che separavano la sua carne dalla mia erano sufficienti per trasmettere il tepore della pelle di entrambi. Ma di più non si poteva, quello era il suo limite. Ritirò la mano, con lentezza.

Puoi farcela, non sembri grave.

Sì.

Dalla borsa tolse una gonna di velluto scamosciato. Si sbottonò i pantaloni di feltro pesant. La sua carne uscì alla luce, rosa, la carne piena delle cosce e dei glutei, la pancia. I collant neri la occultavano parzialmente, ma si vedeva che sotto non aveva gli slip.

Mi alzai sul busto e posai la mano sulla sua gamba. La scostò con dolcezza, si mise rapidamente la gonna senza guardarmi, si allontanò di due passi.

Mi sta bene?

Sì.

Poi mi guardò di nuovo, con serietà.

Io ti piaccio.

Sì. Ma devi fare come dico io.

Sì.

Non mi puoi toccare.

Senza pensarci mi ero alzato e stavo in piedi. Mi fece segno di arretrare. Lei si sedette sul letto, con gli occhi di nuovo bene aperti. Lentamente alzò la gonna di velluto e mostrò di nuovo le cosce, poi il resto. Siediti sulla poltrona di fronte.

Feci quello che mi chiedeva. Le gambe di Emma si aprirono allora, e vidi la sua fica sotto l’ombra della gonna e dietro i collant, una fica giovane e piccola, con un filo di peli nerissimi sopra. Proprio come pensavo, la mano come il piede come la sua fica, come la carne delle sue palpebre.

Toccati.

Abbassai allora i pantaloni del pigiama, lei abbassò i collant appena appena, arrotolandoli sulla sua carne viva e bianca, facendosi stringere dal nastro di nylon.

Prese a toccarsi e io lo stesso. Il suo volto piano piano si contrasse, si tese e gli occhi si chiusero. Finché tutte le linee che la componevano si fusero in un punto solo, incredibilmente denso.

  • Te l’ho data

    Te l’ho data

  • Bianca, come una mosca

    Bianca, come una mosca

  • Cessica

    Cessica

  • Bramire

    Bramire

  • Bzzz

    Bzzz

  • Invisibile, ovunque

    Invisibile, ovunque