Bzzz

Storia di:

Illustrazione originale di Lorenzo Lodovichi

Era tremendamente nauseata.

Inginocchiata sul gres porcellanato effetto legno – in ginocchio ma alta, la pelvi protrusa in avanti come a chiedere al vuoto un contatto, una superficie di contatto, una qualsiasi – non riusciva a capire se avesse bisogno di piangere o di ridere. Di sé aveva appena scoperto che: non riusciva più a creare niente.

“Sono depressa? Sono senza pressione o piuttosto sono satura?” Roteavano gli occhi e si posavano come zanzare sugli oggetti della stanza.

Una lampada: una lampada. Un oggetto qualificabile come lampada. Funzione: emettere luce. Requisiti: elettricità. Una lampada di Flos una lampada di Ikea una lampada di Artemide una lampada a led una lampada a petrolio la lampadina di Archimede l’idea l’ingegno il genio della lampada lampada stessa radice etimologica di lampo. Un lampo. Luce che divide il chiaro dallo scuro la materia dall’indefinito la questione dallo sfondo.

Le si chiuse la bocca dello stomaco come il muso di una tinca. Nessuna emozione che questa lampada potesse suscitarle. Nessuna, nessuna. La guardava – ora come se fosse un’icona bizantina, un codice cifrato – no: la supplicava. “Se dev’essere luce che sia scura come una pozza. Se dev’essere elettricità che sia effervescente come una sorgente. Dammi qualcosa lampada, fammi sentire che tu esisti oltre il mio pensarti!”

Si alzò di scatto, sollevò la canottiera macchiata di pulito e lasciò aderire al paralume la propria pelle. Inizialmente sfregò un po’ poi pensò fosse meglio fermarsi. Fermarsi e sentire. Voleva provare ad essere il paralume di un paralume. Finalmente immaginò la sua pelle come qualcosa di non assolutamente pelle. Si immaginò di stenderla come si stende un impasto ruvide le mani nodose di sua nonna non le mani i pollici.

“Qualcosa di siderurgico nei pollici di nonna qualcosa di sacro quando il corpo si fa macchina” pensò, e accese l’interruttore della lampada. Non aveva occhi per guardare la sua pelle ma la immaginò come un impasto un tessuto attraverso il quale la luce avrebbe filtrato. Cosa avrebbe potuto illuminarsi? C’era ancora qualcosa di sé qualcosa di interno verso il quale provare curiosità?

Si trovò annoiata di nuovo e desiderò figliare: “un figlio, si un figlio, un figlio muto, i suoi occhi nuovi, vivrei nei suoi occhi nuovi!” Ma fu l’eccitazione di un attimo, un respiro largo interrotto dal pensiero dall’immagine di una videocamera no di uno specchio che la mostrasse curva a coprire una lampada da tavolo. Si vergognò e di nuovo il percepire, la libertà del percepire, si interruppe.

Non riusciva più a creare niente. Solo ricombinare i pezzi di una vita piena di pezzi, accostare colori in maniera leggermente più insolita per vedere l’effetto che fa. Ma quale effetto? Erano insetti quelle creature capaci di percepire colori che l’essere umano non riesce a cogliere? Zanzare, persino?

Si fece bambina aprì le mani ad alette e si mise a svolazzare di qualche passo più verso la veranda. Fece bzzz con la voce e si vergognò di nuovo. Pensò: “i fiori non si vergognano. Nemmeno i gerani!” Le piacque come frase la buttò giù sul foglio come se fosse un mozzicone di sigaretta. Pensò ancora: “le piante si creano senza la volontà di crearsi. Non hanno bisogno di un pensiero per creare inflorescenze, alternanze di umidità e secchezze, trame sempre nuove. Si creano e continuano nella creazione, come un automatismo”.

Si sentì trafitta da questa consapevolezza e trovò conforto nel pensiero che stava prendendo forma dentro di lei: “se non sono in grado di creare, sono in grado di distruggere. E perché non voglio distruggere gli altri, distruggerò me stessa.”

Si accasciò sul divano come un cadavere ancora molle. Desiderò che qualcuno le tirasse i capelli come se non le facesse male. L’energia stava salendo in lei come l’antitesi di una primavera. Fiori che sbocciavano nel sottosuolo, pozzi di acqua scura dove nessuna traccia di lampadina nessuna traccia di parola.

Prese la matita non la punta il culo. Non era grafite non era funzione quello di cui aveva bisogno per fare un’esperienza di sè. Matita come sonda: esplorava le proprietà dello spazio delle superfici. La bocca. Le labbra i denti. Morendo registrava, senza decodificare.

“Come registra una matita?” pensò, e poi per punirsi si toccò l’ugola come per indursi il vomito. Voleva toccare il sé fuori dal coloniale fuori dal dizionario. Non voleva fare un neonato voleva essere neonato sentire la materia come la sente un neonato. Liberamente.

Prese a succhiare la matita sentiva il sapore del legno. Le venne in mente un cazzo l’ennesimo cazzo. S’interruppe bruscamente e di nuovo toccò con il culo della matita l’ugola per resettare il processo. Era determinata: cercava nel proprio corpo uno spazio nuovo, libero. Voleva che la conoscenza morisse. Voleva perdersi nella sensazione.

Rannicchiò i piedi sul divano e cominciò a sfregarsi i piedi come per accendere un fuoco. Sarebbe morta per autocombustione? O piuttosto voleva che qualcuno la bruciasse, la bruciasse viva? Le era diventato fin troppo chiaro che in lei c’era un istinto di autoconservazione che stava sabotando il suo proposito di dissolversi. “Da soli né si vive, né si muore”, e agguantò il cellulare come se fosse un’arma.

  • Te l’ho data

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  • Bianca, come una mosca

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  • Cessica

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  • Bramire

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  • Invisibile, ovunque

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