Bramire

Storia di:

Illustrazione originale di Lorenzo Lodovichi

Aveva aperto da qualche mese un parrucchiere ma era talmente sciatto per la città che non aveva praticamente clienti. Passava la giornata seduto sulla poltrona da barbiere consumando social come se fossero sigarette.

Trent’anni ma forse anche quaranta – difficile da stabilire talmente lontana dalla felicità era stata la sua vita, aveva in tutto e per tutto le sembianze di un marsupiale. Il busto sembrava riempito di carne senza alcun criterio. Un misto di muscoli grasso ed interiora tenuto insieme da una pelle morbida ricoperta da peli fitti scuri e sottili. Dai quattro vertici del busto dipartivano arti asciutti e conici. Spalle e anche erano robuste, ma più ci si avvicinava verso le mani più l’ossatura si faceva esile. Se c’erano muscoli questo era difficile dirlo. Certamente dovevano esserci, ma l’impressione è che fossero come funi al servizio di ciò che presiedeva il governo del suo intero corpo: al posto delle dita, sulle mani e sui piedi, Ivan aveva degli artigli.

Non erano unghie da accorciare, falangi da rimodellare, polpastrelli da idratare. Non c’era niente che potesse occultare l’ovvio: le dita di Ivan si attraccavano alla materia come ganci. Ogni tentativo di afferrare – che fosse un giocattolo da bambino, la mano di papà durante l’attraversamento pedonale, persino una fetta di torta per il compleanno – si completava in una maniera così primitiva che lui stesso aveva smesso di pensarle come mani. Il corpo di Ivan finiva negli artigli, e da lì cominciava il dolore di non poter toccare il mondo senza graffiarlo.

Non aveva mai amato. Se stesso, gli altri. Ogni tentativo di contatto l’impossibilità di una carezza; piuttosto solchi, una memoria dettagliata dei solchi che il suo stesso esistere aveva tracciato.

Quando la pubertà gli scoppiò addosso come un’eruzione cutanea, non trovò modo soddisfacente di masturbarsi. Nel tentativo di creare una stretta, un prototipo di orifizio, un pugno, un guanto, un cuscino di carne, le falangi gli si intricavano come rovi di bosco. Erano troppo lunghe, troppo appuntite, incapaci di accostarsi senza interruzione di continuità. Non gli era dato di toccare senza percepire l’anomalia delle sue stesse forme, così – mesto e cronicamente eccitato – cercava un luogo d’accoglienza come un daltonico rincorre un tramonto.

Con il persistere di questa consapevolezza, aveva trovato soluzioni moderatamente creative. Affondava le mani in vecchi cuscini come se fossero guantoni da boxe. Avvicinava muscolosamente le braccia come a creare un pertugio, e lì dentro – in quello spazio mai caldo sempre ruvido – svuotava la sua intera generosità. Altre volte – più raramente perché l’attività richiedeva una forma fisica che non sempre riusciva a mantenere – si accovacciava sul tappeto in lana del salotto, e cominciava a strofinare i genitali avanti e indietro. I movimenti erano piccoli ed esitanti dal principio, con il timore di escoriare la pelle nella sua delicatezza.

Poi qualcosa di metamorfico finiva per accadere – una forza antica e senz’occhi – ed eccolo scorrere nella sua interezza come un verme peloso, il cazzo premuto tra l’addome e la lana come a dover attraversare una selva. Il salotto interno finiva per popolarsi di versi, simili per la verità più a guaiti che a sospiri. Certo che nulla del suo dimenarsi potesse lontanamente avvicinarsi a una forma di attrazione, Ivan cercava, con la determinazione di chi è disperato, di produrre un lamento erotico. Era a tutti gli effetti una forma di richiamo – non lontano nei propositi dal bramito dei cervi in settembre. Un richiamo la cui eco rimbombava nella solitudine delle mattonelle in cotto, nei tendaggi polverosi, nell’obsolescenza di una tavola apparecchiata troppo in anticipo.

Come sovente accade, il dolore gli venne così oneroso da tollerare che si permutò in una rabbia sagace, affilata come i suoi piccoli denti. Se nulla di ciò di cui era portatore riusciva ad essere desiderabile, bestia sarebbe diventato, e bella sarebbe stata una, o l’altra, o un’altra ancora. Aveva così seppellito ogni speranza di essere amato, ed incedeva nel mercato del sesso trafitto e inumidito, protratto in avanti dalla sola ipotesi di un orgasmo condiviso.

Per fortuna – e non per misericordia – la rabbia non è priva di un suo potere erotico, soprattutto agli occhi di chi non riesce a legittimarsela. Così c’era stata Irene, e poi Laura, e poi una donna enorme più del burro. C’era stata anche Adriana, e per più di una notte anche Lucia, quella poveretta.  A tutte Ivan cantava la propria litania; a tutte lasciava, là dove meno lo aspettavano, il solco che segnava il passaggio delle sue zampe.

Non si trattava di semplici graffi, perché i graffi può lasciarli chiunque abbia paura, anche solo per qualche secondo, di non esser stretto a sufficienza. Là dove Ivan riusciva ad agganciarsi durante l’amplesso – i fianchi sformati, le spine ossute delle scapole, l’adipe dei glutei – restava come un basso rilievo, del tutto paragonabile alle reazioni cutanee che causano certi cosmetici di bassa qualità. Leggermente sollevata, eritematosa, disorientata, la pelle portava per giorni il disegno di una passione triste, di una presa cauta ed ostile. Portava i segni di Ivan, le sue mani orrende, mai baciate, mai succhiate, mai nemmeno entrate.

  • Te l’ho data

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  • Bianca, come una mosca

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