Ho sempre maneggiato cazzi. Nel senso, me ne sono passati tanti tra le mani, li conosco, so cosa fare. Anzi, posso proprio dire che se c’è una cosa che mi riesce bene, questa cosa è tenere un cazzo in mano.
Mi piace. Il cazzo è semplice. Sta lì: esplicito, esposto, onesto.
Non ha segreti. Lo vedo e lo capisco.
Dallo a me, ci penso io.
Poi sì, c’è tutto il resto, va bene. Ma a volte mi dimentico pure che attaccato c’è un uomo. Con il cazzo ho un rapporto speciale: lo so toccare, sentire, so conversarci. O meglio, sono le mie mani a sapere cosa fare. Io posso anche pensare ad altro se voglio, fanno tutto loro.
C’è la mia mano e c’è il suo cazzo, le mie dita e la sua pelle si parlano in quell’alfabeto privato intraducibile, simile a un valzer. La mano sa sempre cosa deve fare, ci pensa lei. Interpreta le sue richieste silenziose, capisce come assecondarlo, prevenirlo, accompagnarlo nelle sue forme che cambiano. Vene pulsanti sotto i miei polpastrelli, come codice Morse. La carne plasmata fino all’erezione, l’orgasmo, o quello che mi serve in quel momento. Quello che decidono le mie mani.
Insomma, ho sempre maneggiato cazzi.
A questo ho pensato la prima volta che immobile, muta, completamente pietrificata, mi sono ritrovata davanti una donna nuda.
Mi ricordo quando a scuola studiavo il Romanticismo, il concetto di sublime, quel sentimento misto di terrore e attrazione, che sottende la vista di qualcosa di eccelso e spettacolare, capace di colpire e innalzare l’animo dello spettatore. Qualcosa che spaventa, ma attira al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo.
A me il corpo di una donna fa questo effetto. È uno spettacolo sublime. Già giorni prima, mentre la baciavo, e sentivo le sue guance lisce come le mie, le sue labbra gonfie e morbide come le mie, l’odore della pelle leggero e vanigliato, avevo avuto un senso di vertigine. La percezione di essere al cospetto di qualcosa di familiare e alieno, irresistibile e incontrollabile. Ora lei è qui, nuda, sdraiata, divaricata davanti a me.
La sua fica è aperta e imperscrutabile, come un varco su un’altra dimensione. Penso: il cazzo è un oggetto, la fica è un luogo.
È calda e umida, come qualcosa di giusto, come dove c’è vita. È pronta.
Mi aspetta, mi richiede. Io mi sento paralizzata, davanti a un regalo che non mi merito, un’accoglienza di cui non sono degna.
Sono interdetta, non riesco a guardare, non riesco a non guardare. Resto, letteralmente, con le mani in mano.
Corpo di donna. Io, che donna lo sono e nel mio corpo ci vivo, fin dall’inizio con queste stesse mani che ora tremano, ne ho studiato le potenzialità e i limiti, i segreti e i misteri, e ne conosco con violenza e dolcezza ogni millimetro e ogni cellula. Ora ho davanti a me un altro corpo mio, che mio non è.
E non riesco a muovermi. Non so cosa fare.
Adesso la capisco la paura. Il terrore atavico degli uomini, che genera il panico della repressione e il delirio di controllo sui corpi delle donne, dalla notte dei tempi.
Oh, se capisco.
Poveretti. Costretti a odiare perché espulsi, esclusi. È questa la cacciata dal paradiso? Ridotti alla violenza perché incapaci di amare nel dolore del distacco. È troppo da sopportare, vero? Tragedia insostenibile per questa piccola, miserabile razza che non siamo altro.
Qui dentro c’è tutto.
La promessa di una via di fuga, la salvezza. L’incognita della trappola, la dannazione. Entrambe le cose.
Rimango inerme, di fronte al perimetro di una rivelazione di cui ne intuisco appena la potenza e penso che sì, questa è davvero l’origine del mondo.
Toccami, mi dice lei.
Dì soltanto una parola e io sarò salvata, penso.
Sono inginocchiata davanti a lei, come in preghiera. Il mio corpo sa flettersi, piegarsi, subire. Io so ricevere, accogliere, assorbire. So incassare colpi e carezze, dilatarmi e stringere, darmi oltre la soglia del dolore. So farmi invadere, possedere. Io so prendere. So diventare io più un altro. Io più qualcosa.
Ma non sono mai entrata in nessuna persona.
Questa è la prima volta che a penetrare sono io, e mi sembra un gesto assurdo, inaudito. Scopro ora, troppo tardi e senza senso, che provo un rispetto e una riverenza difficili da spiegare. Timore e amore. Qui non c’è muscolo, pelo, ruvidità. Questa pelle è liscia, questa carne è morbida come la mia, non può fare male. Provo tenerezza, è devastante.
È lei a prendermi la mano. È lei ad avvicinarsela al clitoride. Mi ha accompagnata, con la pietà di una divinità benevola. Un contatto che è un sorriso in terra straniera, quando nessuna parola può colmare l’incomunicabilità.
La tocco piano, la sfioro appena.
La punta delle mie dita, lievissime su di lei, come vibrazione di ali di libellula. Allora cedo, e lascio che siano le mie mani, ancora una volta, ad arrivare dove io non arrivo.
Andate avanti voi mani, vicarie dell’amore e della mia volontà. Ama la prossima tua, come te stessa. Fate a lei quello che fate a me.
Osservo le mie dita su di lei e penso: falangi. Falangi queste piccole ossa, falangi come la fanteria dell’esercito in prima linea, lo schieramento frontale che avanza.
Falangi che entrano.
Sento un’iniziale resistenza, membrana che si piega ma non cede, come la tensione superficiale dell’acqua quando cade un petalo. Mi ricorda un fiore tropicale carnoso e osceno, un bocciolo di ibisco non ancora schiuso. Spingo un po’ di più.
Due dita dentro.
Lei si inarca e cambia peso, consistenza, gravità, pianeta. Mi corre incontro un brivido suo che diventa mio, una scossa che passa da schiena a schiena, un respiro soffocato in gola che sembra un spavento muto, reciproco.
Passa un minuto, una vita, un’ora.
Mi muovo come fa la marea che ubbidisce alla luna.
Lei che geme sommessa, sommersa, mormorio ctonio di fiumi di nervi invisibili, io che mi faccio strada imitando le onde.
La sua lava bianca tra la dita, encomio supremo, applauso di miele, rugiada su cavi elettrici.
Il piacere di una donna è un assolo che si fa orchestra.
Che bella che è.
Che spettacolo della natura, che capolavoro irraggiungibile è una donna che gode.
Appoggio l’altra mano sul suo ventre, in basso, sopra il pube. Le mie dita che si percepiscono a vicenda attraverso il suo corpo. La diversa materia delle sue carni tra le mie mani, sopra e sotto, dentro e fuori. Penso che questo sia un posto bellissimo dove stare. Questi pochi centimetri che abbiamo creato qui sono un luogo stupendo, un delimitato e infinito, concreto e inafferrabile pezzo di paradiso.
Penso a lei, a me. Penso a mia mamma, a mia nonna, alla figlia che non ho. Penso a tutte le donne, carne della mia carne.
E mentre sento che sta per venire, stretta alle mie dita come pugno di neonato, in contrazioni che pulsano all’unisono con il mio sangue nelle tempie, penso a Maria, concepita senza il piacere e penso a Eva, punita per il desiderio.
Ave Eva.
Gonfia di vita come soldato in trincea, mi curvo sotto le esplosioni dei suoi gemiti, sempre più forti, sempre più vicini. Appoggio la fronte sul suo sesso e in un sussurro che mormoro appena, recito una preghiera blasfema per noi peccatrici, disgraziate piene di grazia, benedetto il frutto del nostro seno ma maledette noi, prego per noi, godo per noi, adesso e nell’ora del nostro orgasmo.
Amen.
Vieni.






