Aspetta

Storia di:

Illustrazione originale di Lorenzo Lodovichi

A un certo punto finiva l’inverno e ci riversavamo sulle spiagge. Alessandra veniva da Roma ed era piccola e bruna. Le gambe snelle, cotte dal sole. Gli occhi castani e gialli sul fondo.

Prima giocavamo a pallavolo in acqua, sempre a pallavolo. Poi quando il sole calava, la sua mano piccola e forte prendeva la mia. Il primo anno c’erano stati i baci. Baci che mi dava prima a bocca chiusa, poi con la lingua. Il primo anno forse è stato il più bello.

Sotto ai baci però era un continuo. All’inizio non c’era dolore, era solo una sensazione. Mi bastava vederla, Alessandra, da lontano, e il cazzo prendeva a spingere sul costume da bagno. Batteva.

Questo lo sanno gli uomini, le donne non lo sanno.

Smettila. Smettila.

Ma era impossibile. Un giorno eravamo in acqua a giocare con altri, il sole picchiava e io mi gettavo in avanti per toccarle un ginocchio, non visto. Avevamo pudore di farci vedere. E mentre riemergo, un amico mi dice all’orecchio.

Ti esce il sangue.

Mi guardo il petto e vedo una cravatta di rosso, e rosso tutto intorno. Il naso.

Alessandra ride, perché lo sa benissimo che è colpa sua.

Mentre ci baciamo mi racconta del suo fidanzato d’inverno. Il fidanzato è più grande di me. È uno che picchia. La sera va in giro a tirare bottiglie piene di piscio alle prostitute.

È uno di borgata. Dice.

È uno stronzo.

Ti ucciderebbe, se sapesse.

Ride ancora e poi mi bacia più forte. Con la lingua sottile, come quella di un serpente. Sa di menta Alessandra, no anzi, di quelle erbette piccole e senza nome, che stanno nel fondo delle siepi e ti toccano il naso agli inizi di maggio.

Ti prego, ti prego.

Che? Lo sai.

E ride.

Aspetta.

Il secondo anno mi chiede di più. Ci sta pensando, ma ancora non è pronta. Per lei rubo una canoa doppia. Tanto il bagnino mi conosce, la restituirò penso. Ci inoltriamo nei canali dietro le dune, dove il mare grosso si deposita in laghi di acqua salmastra, che sa di ferro. Isole di giunchi galleggiano, e ci sono gli aironi. Nell’acqua si sentono i pesci muoversi lenti. Sembra un po’ l’Africa. Vuole gettarsi nell’acqua melmosa.

È acqua morta, scema!

Ma a lei non importa, ha caldo. Si toglie il costume d’argento, se lo toglie tutto insieme come il serpente si toglie la pelle. Smetto di respirare. La sua vulva, i peli del sesso dai riflessi dorati. Faccio per toccarla, mi respinge. Si getta nell’acqua, la canoa rimbalza all’indietro e mentre oscillo il cuore che pulsa mi tappa le orecchie.

Aspetto che riemerga, la tiro a bordo. Adesso odora di terra e di sangue e di fiori decomposti. Mi abbraccia, le gambe si aprono, la sua mano di nuovo prende la mia.

Toccami.

La tocco. Sulle dita ho la sabbia, il sale. Mi faccio largo piano, piano. Lei ride. Non lo sai fare.

La osservo. Sempre il suo sorriso, una corona d’avorio che affiora dal corpo, perfetta. Quanto è sana.

Faccio io.

Così mi toglie il costume, e la sua mano bruna e piccola prende il mio cazzo, bianco e teso. Un braccio mi scivola in acqua mentre vengo, e penso di essere caduto dall’alto di un palazzo altissimo. Il seme le schizza sulle gambe. Alessandra continua a guardarmi negli occhi, e ride. Neanche lo guarda il cazzo. Il seme le cola sulle tibie, poi sul collo del piede, tra le dita. Alessandra immerge i piedi nell’acqua e si toglie lo sperma con noncuranza, la materia si raffredda, diventa grassa e densa. Piccoli pesci dagli occhi bianchi salgono dal fondale buio e se ne cibano.

La riporto indietro.

Aspetta.

Cosa?

Lo sai cosa.

Poi si gira a guardarmi, ridendo.

Mi scoperai. Cos’altro? Faremo l’amore.

Quando?

Aspetta, solo un altro poco.

Quando?

Domani.

Domani l’aspetto, allora. Ma Alessandra non viene, e non verrà. Io sto lì come uno scemo, al sole. Col preservativo in tasca. Vado a cercarla, la sua amica è Maria: mi dice che è partita.

I suoi finivano le ferie.

E quindi? Chiedo.

Quindi niente. È tornata a Roma.

L’inverno mi piomba addosso. Ma io penso ad Alessandra. Non posso contattarla, non ci sono i cellulari non c’è niente. Durante l’inverno mi masturbo. Senza sosta, più volte al giorno. Anche pisciare diventa un problema. A parte questo, la sola cosa che mi riesca di fare è dormire.

L’estate successiva mi getto allo stabilimento. La cerco ovunque, ma la gente sembra diversa, non mi ritrovo. Non ci sono le sue amiche. Alessandra non c’è. L’estate trascorre così. Provo a non pensarci, ma qualcosa mi brucia in pancia. Mia madre è preoccupata.

Sembri un osso di seppia. Secco e bianco. Lo sono.

Mi accosto allo specchio, ha proprio ragione lei. Sembro non averne più di sangue in corpo.

L’ultima sera mi trascinano al falò, quello con cui si chiude l’estate. Mi passano una lattina di birra, fredda, gelata e mi ci attacco. Mi guardo intorno, il cuore mi salta un battito. Ben oltre il cerchio del falò noto un’ombra. I capelli, quel collo, faccio un passo in avanti senza accorgermene con la certezza di chi si è esercitato per mesi nel ricordo, ogni giorno. L’ho evocata fin troppe volte, a partire da pochi dettagli ho ricomposto mille volte un corpo.

Alessandra.

Alessandra si gira, ma non è lei. Potrebbe esserlo a dire il vero. I capelli, le mani, i piedi nelle infradito sono i suoi. Le orecchie pure, sue. E il volto potrebbe essere quello, ma a guardarlo bene no.

No, sono Manuela.

Dice, e mi sorride. Ma di nuovo, il sorriso non è quello, e gli occhi sopra non brillano della stessa luce. Poi capisco.

Tu sei…

Manuela annuisce.

La sorella sì. Di Alessandra.

Mi siedo accanto a lei. Con circospezione. Parliamo. Mi dice che i loro genitori si sono separati, e che la madre adesso sta con uno del nord e preferisce passare le estati in montagna, a camminare.

Non credo la rivedrete. A lei qui non piaceva.

Silenzio.

Tu sei un suo amico? Amico, sì.

La osservo. Non è bella come Alessandra, forse, ma soprattutto non ha quella cosa. Quella cosa che ti veniva voglia di averla anche tu, di rubargliela e tenerla con te per farti caldo in inverno. Anche se ti mette in pericolo, anche se ti brucia la pelle. Manuela sembra un osso di seppia, con le sue spalle chiuse e flosce, con il sorriso mite, la testa bassa. Gli occhi non si incurvano verso l’alto, non sono gli occhi di un lupo, ma quelli di una persona mite. Incapace di fare del male. Mentre parliamo succede una cosa però. Qualcosa succede. Che io mi vedo attraverso gli occhi di lei.

Vedo me stesso, e ho gli occhi del lupo. Il sorriso che mi esce dal corpo è una corona d’avorio. Ho qualcosa adesso che potrebbe scaldare Manuela nel prossimo inverno, e qualcosa che potrebbe farla star male. La prendo per mano e la conduco sulle dune. Manuela non dice nulla, si fa portare.

Mi abbraccia e socchiude la bocca, ma trema. Io la scosto, e lei rimane per qualche istante con gli occhi socchiusi e la lingua di fuori, come un gatto quando fa le fusa. Butto il telo per terra e la faccio stendere. Le tolgo gli shorts e le mutandine bianche di cotone spesso. Mi metto il preservativo e la penetro. Manuela mi abbraccia all’altezza della nuca, tanto forte.

Vengo. Esco e mi tolgo il preservativo. Lei si rimette le mutande. Torniamo insieme al falò, gli amici stanno per andarsene. Manuela fa per darmi un bacio.

Hey.

Dimmi.

Quando ci rivediamo?

Aspetta.

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