Autore: Utente anonimo

  • Bramire

    Bramire

    Aveva aperto da qualche mese un parrucchiere ma era talmente sciatto per la città che non aveva praticamente clienti. Passava la giornata seduto sulla poltrona da barbiere consumando social come se fossero sigarette.

    Trent’anni ma forse anche quaranta – difficile da stabilire talmente lontana dalla felicità era stata la sua vita, aveva in tutto e per tutto le sembianze di un marsupiale. Il busto sembrava riempito di carne senza alcun criterio. Un misto di muscoli grasso ed interiora tenuto insieme da una pelle morbida ricoperta da peli fitti scuri e sottili. Dai quattro vertici del busto dipartivano arti asciutti e conici. Spalle e anche erano robuste, ma più ci si avvicinava verso le mani più l’ossatura si faceva esile. Se c’erano muscoli questo era difficile dirlo. Certamente dovevano esserci, ma l’impressione è che fossero come funi al servizio di ciò che presiedeva il governo del suo intero corpo: al posto delle dita, sulle mani e sui piedi, Ivan aveva degli artigli.

    Non erano unghie da accorciare, falangi da rimodellare, polpastrelli da idratare. Non c’era niente che potesse occultare l’ovvio: le dita di Ivan si attraccavano alla materia come ganci. Ogni tentativo di afferrare – che fosse un giocattolo da bambino, la mano di papà durante l’attraversamento pedonale, persino una fetta di torta per il compleanno – si completava in una maniera così primitiva che lui stesso aveva smesso di pensarle come mani. Il corpo di Ivan finiva negli artigli, e da lì cominciava il dolore di non poter toccare il mondo senza graffiarlo.

    Non aveva mai amato. Se stesso, gli altri. Ogni tentativo di contatto l’impossibilità di una carezza; piuttosto solchi, una memoria dettagliata dei solchi che il suo stesso esistere aveva tracciato.

    Quando la pubertà gli scoppiò addosso come un’eruzione cutanea, non trovò modo soddisfacente di masturbarsi. Nel tentativo di creare una stretta, un prototipo di orifizio, un pugno, un guanto, un cuscino di carne, le falangi gli si intricavano come rovi di bosco. Erano troppo lunghe, troppo appuntite, incapaci di accostarsi senza interruzione di continuità. Non gli era dato di toccare senza percepire l’anomalia delle sue stesse forme, così – mesto e cronicamente eccitato – cercava un luogo d’accoglienza come un daltonico rincorre un tramonto.

    Con il persistere di questa consapevolezza, aveva trovato soluzioni moderatamente creative. Affondava le mani in vecchi cuscini come se fossero guantoni da boxe. Avvicinava muscolosamente le braccia come a creare un pertugio, e lì dentro – in quello spazio mai caldo sempre ruvido – svuotava la sua intera generosità. Altre volte – più raramente perché l’attività richiedeva una forma fisica che non sempre riusciva a mantenere – si accovacciava sul tappeto in lana del salotto, e cominciava a strofinare i genitali avanti e indietro. I movimenti erano piccoli ed esitanti dal principio, con il timore di escoriare la pelle nella sua delicatezza.

    Poi qualcosa di metamorfico finiva per accadere – una forza antica e senz’occhi – ed eccolo scorrere nella sua interezza come un verme peloso, il cazzo premuto tra l’addome e la lana come a dover attraversare una selva. Il salotto interno finiva per popolarsi di versi, simili per la verità più a guaiti che a sospiri. Certo che nulla del suo dimenarsi potesse lontanamente avvicinarsi a una forma di attrazione, Ivan cercava, con la determinazione di chi è disperato, di produrre un lamento erotico. Era a tutti gli effetti una forma di richiamo – non lontano nei propositi dal bramito dei cervi in settembre. Un richiamo la cui eco rimbombava nella solitudine delle mattonelle in cotto, nei tendaggi polverosi, nell’obsolescenza di una tavola apparecchiata troppo in anticipo.

    Come sovente accade, il dolore gli venne così oneroso da tollerare che si permutò in una rabbia sagace, affilata come i suoi piccoli denti. Se nulla di ciò di cui era portatore riusciva ad essere desiderabile, bestia sarebbe diventato, e bella sarebbe stata una, o l’altra, o un’altra ancora. Aveva così seppellito ogni speranza di essere amato, ed incedeva nel mercato del sesso trafitto e inumidito, protratto in avanti dalla sola ipotesi di un orgasmo condiviso.

    Per fortuna – e non per misericordia – la rabbia non è priva di un suo potere erotico, soprattutto agli occhi di chi non riesce a legittimarsela. Così c’era stata Irene, e poi Laura, e poi una donna enorme più del burro. C’era stata anche Adriana, e per più di una notte anche Lucia, quella poveretta.  A tutte Ivan cantava la propria litania; a tutte lasciava, là dove meno lo aspettavano, il solco che segnava il passaggio delle sue zampe.

    Non si trattava di semplici graffi, perché i graffi può lasciarli chiunque abbia paura, anche solo per qualche secondo, di non esser stretto a sufficienza. Là dove Ivan riusciva ad agganciarsi durante l’amplesso – i fianchi sformati, le spine ossute delle scapole, l’adipe dei glutei – restava come un basso rilievo, del tutto paragonabile alle reazioni cutanee che causano certi cosmetici di bassa qualità. Leggermente sollevata, eritematosa, disorientata, la pelle portava per giorni il disegno di una passione triste, di una presa cauta ed ostile. Portava i segni di Ivan, le sue mani orrende, mai baciate, mai succhiate, mai nemmeno entrate.

  • Bianca, come una mosca

    Bianca, come una mosca

    “Quando mi scopa non vengo non sono mai venuta con lui”

    Sudano i cipressi sul profilo delle colline maremmane – colline che sono pianure gonfie di boria di rabbia di fame di vuoto. Lungo la provinciale brilla la Cadillac zaffiro noleggiata per il grande giorno il grande evento il grande sodalizio. La cromatura degli specchietti retrovisori rifrange senza pietà, Laura guarda dietro, dietro niente ma davanti? Non riesce a capire come gli sia uscita una frase del genere non ha mai parlato di sesso con suo padre.

    Suo padre occhi verdi capelli a spazzola ancora tutti, il cardigan profumato anche nella mezza stagione, anche oggi che è settembre e spazzola la polvere un vento caldo come una zuppa fredda. Suo padre cosa dirà suo padre? Cosa può dire a cinque minuti dalla basilica le scarpe lucidate il conto prosciugato la speranza di una fine di un inizio di un sollievo?

    Laura non sa cosa non riesce ad aggiungere, il tempo scorre più lento della depressione, sono passati almeno tre cartelli stradali e ancora niente – la macchina muta come una bomba. Vuole dire vuole provare a dire qualcosa ma oltre la verità dopo la verità che cosa si può aggiungere?

    Svolta e destra la conversazione si rompe:

    “Laura, io non so cosa dire, mi dispiace. Cosa vuoi che faccia?”

    Laura seni piccoli duri mutandine pruriginose il bianco le sta male l’ha sempre detestato lei viola, viola come un fiore viola come un salmo viola il peccato più lussuoso lei viola viola violante violini violenza. Viola seduta dietro, la Cadillac va avanti, le viene solo da ripetere – la voce questa volta senza più sconcerto, solo aria – “non vengo”.

    “Laura cosa faccio? Ti aspettano tutti”

    “papà, tu fai venire mamma?”

    “Laura, ti prego, non adesso”

    “papà, se non ora quando?”

    “Ma Laura – continua a ripetere il nome per sincerarsi che la conversazione stava proprio avvenendo con sua figlia, sua figlia, Laura, Laura ti ho vista bambina poi ti ho vista suonare le corde di una chitarra per amore ti ho vista abbracciare una tesi di laurea come fosse un neonato ti ho visto brillare sempre brillare, Laura, Laura, Laura – …”

    Non riesce a finire la frase siamo a tre minuti dalla chiesa. Laura dietro immobile come uno scoglio incastonato nei sedili in pelle, bianca ma la faccia non rossa non arancione viola, viola e sudata, arruffata, ma sono peli quelli che spuntano dal mento oppure è solo lo specchietto retrovisore ad essere sporco? Laura che si fa animale, un animale terrorizzato, i suoi denti bianchi ora piccolissimi ora zanne, sono campane quelle che suonano cosa faccio ora cosa cazzo faccio?

    “Papà non portarmi in chiesa”

    “Dove andiamo Laura”

    “Non lo so non in chiesa non voglio sposare Michele”

    “Ma ne avete mai parlato avete visto qualcuno un terapeuta una sessuologa”

    “Papà non vengo con lui perché – denti aperti, silenzio – ehhh, perchè non gli puzza”

    “Cosa”

    “Papà, si lava così tanto che non sento l’odore non sento la fame non sento la voglia”

    “Laura posso chiamare la mamma io non mi sento di avere questa conversazione”

    “Siamo qui io e te, parla con me, è ora il momento”

    “Va bene”

    Silenzio, denti chiusi.

    “Ma lui ti vuole? Insomma gli viene duro? Riesce a entrare?”

    “Si papà entra ma è come se fosse una procedura medica è tutto troppo pulito”

    “Due secondi di riflessione, la traccia delle ascelle ad alto contrasto sulla giacca in misto lino, niente di riparabile, niente più di riparabile. Cambio di tono, giù di un’ottava come se si scendesse in una caverna di tufo, reperti etruschi e nasi, nasi e labbra, nasi e labbra.”

    “Gli hai chiesto di non lavarsi?”

    “Si ma non cambia”

    “Ti ha mai fatto sesso?”

    “All’inizio un poco ma giusto perché mi immaginavo”

    “Cosa ti immaginavi?”

    “che prima o poi avrebbe iniziato a puzzare”

    “l’hai mai tradito?”

    “no papà”

    “lo tradirai?”

    “Papà io non lo voglio cioè si lo voglio lo voglio accanto è lui è Michele ma cazzo cazzo!”

    “Il cazzo”

    “Cosa?”

    “Ti piace?”

    “Papà non fare il maschio per piacere. Il punto non è il cazzo se è grande se è piccolo se è storto se tocca qui o tocca lì il punto è che quando lui è eccitato sembra una bambola gonfiabile non ha nessun tipo di odore”

    “E quindi?”

    “E quindi non lo sento. Io non lo sento. Non sento che mi vuole. Non sento che vuole me i miei umori”

    “Laura ti stai fissando. È normale andare in ansia in un giorno così importante.”

    “Papà stiamo insieme da cinque anni non sono mai venuta, mi sto fissando?”

    Cadillac ferma fuori dal paesino. Fornace nell’abitacolo, lascia il volante, ruota la schiena verso i sedili posteriori, mosche che sembrano nascere dai posaceneri dai cruscotti dagli airbag mosche nell’aria mosche che ronzano un ronzio il vestito bianco ora stracciatella: “Laura, amore mio, figlia mia, amore di papà, ti guardo ma non vedo non vedo non capisco. Laura ora sentimi bene. La verità è indicibile. Tutto si muove attorno alla verità, la stuzzica, ne ruba le briciole o il profilo migliore. Abbiamo i pensieri e abbiamo le labbra. I pensieri sono tuoi, per sempre tuoi. E poi abbiamo le labbra per fermarli. Gonfiale come boe di salvataggio. Tieni per te la tua verità.”

    “Che faccio quindi, lo sposo?

    “È irrilevante. Ti sto parlando di altro”

    “Non capisco di cosa mi stai parlando”

    “Hai bisogno di un cazzo che puzza per venire? Trovalo. L’hai mai trovato?”

    “Si”

    “Chi”

    “Non lo conosci. Ci penso quando mi tocco”

    “Quando ti tocchi non pensi a Michele?”

    “Mi tocco per non pensare a Michele!”

    “E perché non stai con quest’altro?”

    “Papà sono passati sette anni”

    “E ci pensi ancora?”

    “Perché tu non pensi a quelle che hai avuto prima di mamma? No Laura, non ci penso. sto bene con mamma.”

    “E allora io non sto bene con Michele, voglio stare come tu stai con mamma.”

    Motore acceso, mani ormai wurstel bolliti cazzo il volante scotta, come fa a scottare così tanto! Eccesso di peli, avambracci, e barba, persino la cadillac da glabra a irsuta, un crescere di amore ed un crescere di vita ed un crescere di erbe erbe selvatiche amare amare, amare quasi tarassaco, amare, una voglia tremenda di amare, l’amore di un padre per la figlia di una figlia per il padre, ruote che girano lisce come cosce di monaca sulla provinciale la laguna di Orbetello sulla sfondo una giornata chiara un mare mosso un mare calmo un mare mosso un mare calmo niente di viola tutto viola niente di viola tutto una viola.

  • Cessica

    Cessica

    A una donna non l’avrei fatto a te si perché?

    A te avrei strappato i collant mentre eri in piedi, tirato su il tubino fino a poco sopra le anche, ti avrei preso da dietro per la cintura – la cintura di Zia Mia, hai detto, chincaglieria d’oro che neanche i cinesi. Per la cintura per i capelli no per le extensions non avrebbe funzionato non avrebbero retto perché volevo tirare tirare forte ti avrei fatto male? Tirarti tirarti a me tirarti via dal pozzo nero dove ti sei sdraiato da mesi e dove no io no io non voglio entrarci io rifiuto ma prova tu a scoparlo un pozzo nero prova tu a trovarci la vita il sangue il sangue rosso.

    Così, per uscire da te, ti sei fatto puttana per una sera. Di carnevale si intende. E mi hai chiesto di vestirmi di travestirmi io che vivo di nudità il mio dentro tutto fuori tutto negli occhi sempre tutto fuori esposto tu che i miei occhi non ti sei mai fermato a guardarli ad amarli prima di averti lasciato ti ho chiesto cosa vedi nei miei occhi hai risposto: due buchi neri allora li sai guardare guarda cosa ne hai fatto ti ricordi com’erano accanto alla chiesa no alla galleria d’arte no alla serranda guarda guardami ora.

    Mi sono travestito: sì, pur di trasformare quel pozzo in una boiler room, pur di fuggire da quel noi deprimente che siamo diventati e trovarci ritrovarci nuovi, sconosciuti, diversi. Piacere di conoscerti, Cessica, e nella tua voce una sciantoseria un dolore dimenticato una stupidità ricca una vita una libertà una voglia. Piacere di conoscerti mio, per stasera sono Peppe il tuo Pappone.

    Ora siamo in macchina, la notte che è piatta come un ferro da stiro schiaccia le due torri dell’ospedale al suolo. Strade curve e strette, tu che ami tuo padre più di quanto ami amerai mai me, nessuno in giro, un pappone una puttana che sembra che si vogliano bene? Perché non ti tratto come una puttana? Perché nella mia voce nel role play che spingiamo oltre la noia vince la voglia di farti felice? Ti prometto un futuro di clienti d’alto bordo cocktail esotici nel principato di Monaco continuo a ripeterti che sei una brava ragazza tanto una brava ragazza. Vergognandomi esitando come ho sempre esitato provo a toccarti le tette che ti sei costruito a regola d’arte appallottolando magliette di cotone “sono 100% naturali” – una volta mentre eravamo nudi non so se scopavamo hai chiamato il tuo petto tettine e io il mio cuore la mia emozione ero molle ed ero duro ed ero molle ed ero duro tu scegli di non darti di non darmi ma sempre ti prendi sempre ti prendi ti prendi tutto – e sotto la pipa di plastica sotto il cappello di plastica sotto i baffi di plastica sopra la mia barba di carne sorrido e penso alla tua intelligenza seppellita al tuo cuore inafferrabile come quelli di una puttana e tutto fa male nel corpo tutto il mondo nel corpo tutto il mondo nel male l’ospedale dopo tutto non è così lontano.

    Eravamo in casa a prepararci c’è stato un momento in cui non ne potevo più di non esser guardato costumato scostumato di non scoprirti e così con un calcetto ho aperto la porta del bagno per vederti truccare allo specchio chinato chinata leggermente sul lavandino il tacco destro incrociato dietro quello sinistro che belle gambe che hai così tanta grazia così tanta porcheria la porta aperta nello specchio avresti potuto vedermi riflesso ma guardavi te stessa guardavi le tue labbra guardavo le tue labbra hai saputo truccarti con la purezza di una ragazzina non eri solo bravo brava tu eri tu in un modo in cui un uomo non può esserlo e io io io ti ho amato ho amato la ragazzina che sei le tue labbra disegnate ti sei pure colorata le gote le tue ciglia tu eri bella per me eri bellissima bellissima bellissima come quando ero io bambino guardavo mia mamma truccarsi male in bagno che brutta che brutta mia madre la guardavo ma come guardo te è per la prima volta come guardo una donna una madre qualcuno che vorrei che mi desse un figlio un figlio nostro mio tuo qualcuno che non può che nemmeno vorrebbe qualcuno che sei o non sei cosa vedono i miei occhi?

    È tardi di notte ne abbiamo bevuti un paio di troppo la città è un cimitero le uniche persone travestite cioè le uniche persone nude siamo noi e io ho freddo e tu non mi baci come al solito non mi accarezzi ma fai una cosa fai ruotare il tuo stivaletto di pelle nero come se fosse un serpente attorno alla mia caviglia e a me sembra che godi travestito travestita e io che non riesco mai cazzo a capirti mai cazzo non riesco a tenere nessuna parola dentro ti dico “non ho mai trovato attraenti le drag né i porno in cui i maschi indossano lingerie ma devo dirti – e mentre lo dicevo la tua pancia grassa aveva seppellito la cintura d’oro di zia Mia e il tuo vestito era salito fino a far spuntare il sacchetto dei tuoi boxer briefs quel sacchetto che per me è oro oro la vita l’oro – che questo è il mistero dell’eros, ed è la prima volta che lo provo nella vita: che non importa che corpo hai, né che cosa il tuo corpo ha da dare, io desidero il serpente che lo abita, io desidero te, quello che sei prima di essere. Se tu facessi una transizione, non cambierebbe il modo in cui ti voglio in cui ti amo”.

    Tu non dici niente mai niente come al solito niente sorseggi da una cannuccia il tuo solito prosecco con Campari una fetta d’arancia non di limone un cubetto di ghiaccio continui a lasciarti guardare, e perché continuo a guardarti? Perché non sei tu a guardarmi ad essere perdutamente innamorato perché non sei tu ad amare se più tardi andiamo a casa voglio che tu ti spogli e ritorni te o voglio che tu rimanga Cessica, Cessica appoggiata al tavolo tondo della cucina con i tacchi e le gambe leggermente aperte, e tu me l’avresti lasciato fare persino l’avresti desiderato? Sei mai stato desiderato mi hai mai desiderato come ti desidero io io uova d’oro io bambino allo specchio io ragazzina io madre io padre io serpente? Hai mai voluto essere scopato come se fossi una puttana ho mai voluto scoparti come se tu fossi una puttana cioè come se io fossi un uomo un uomo l’uomo che non sono l’uomo che sono sono un pappone sono uomo proprio come tutti gli altri?

    Perché, quando in macchina ero non-io e ti trattavo come se fossi un mio oggetto una mia fonte di reddito una donna cretina una donna inferiore da sedile passeggero, ti trattavo con il portafoglio con l’acceleratore con la pipa con la barba con l’impermeabile con l’alito secco di chi non mangia verdure, non sentivo dolore vergogna dispiacere se mai una forma antica scomoda rassicurante irrinunciabile di sollievo?