Autore: Utente anonimo

  • Te l’ho data

    Te l’ho data

    Era mia, cioè:

    non era altrui.

    Eppure voleva esserlo?

    aveva una sua volontà, che non era la mia?

    Era tesa e dura, poi morbida, enorme fino al minuscolo. Viveva di una vita sua, vibrava.

    Era me? era in me? era con me?

    Era mia, ma le ero insufficiente. La sua forza non si esauriva in me: si protendeva.

    In questo protendersi, era tormentata dal tormento: il terrore di darsi, il desiderio completo – incessante – di darsi.

    La curavo, me ne prendevo cura. La rassicuravo, la assicuravo. Ero la sua tana e la sua prigione.

    Fino a che era mia, e mia solamente, sapeva che non le sarebbe accaduto niente.

    Di spiacevole, di imprevisto.

    Sapevo – ho sempre saputo – che non si concludeva in me.

    Era fatta per, sembrava nata per raggiungere; aspirava. 

    Così mi facevo ampio, slabbravo ogni bordatura, la ingannavo. La distraevo, la manipolavo – nenie lente e pesanti, suoni ipnotici perché si addormentasse, perché avesse pazienza.

    Aspetta, aspetta ancora, amore mio. Le dicevo, cioè dicevo a me. Quando sarà il momento di darsi non ci sarà terrore. Sarà una discesa lieve, vedrai. Lo sentirai.

    Erano parole.

    Non riuscivo a distinguere il rancore dall’irrequietezza. Non riusciva più a essere solo mia, non perché desiderasse essere libera. Sapevo che la libertà non l’aveva mai davvero affascinata. Lei voleva appartenere, sicuramente non voleva essere sua, non sapendo come esserlo. Le sembrava un pensiero quello di appartenersi. Un’invenzione.

    In nessun modo voleva lasciarmi. Voleva stare in me, con me.

    Più volte l’avevo sentita dire che era mia – così come io pensavo e volevo – e altre volte, senza parole – senza mentire cioè – aveva lasciato intendere che fosse me.

    Era la cosa più profonda e più intima che avessi mai avuto. Mi ossessionava cercare di capire cosa significasse per me ‘averla’. Disporne liberamente? Includerla nel mio senso di ‘me’, quant’anche corporeo?

    Vivevo male, tremendamente anzi. Era talmente mia che era ovunque in me. La sentivo nel respirare, persino nel modo in cui certe consonanti uscivano dalle labbra. Io la percepivo come una forma dentro di me. Una forma viva. Era sempre nel mio pensiero. Per questo mi ero rassegnato al fatto che fosse me, e che le preposizioni, come i pensieri, erano invenzioni.

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    Sono stato da una vecchia ieri pomeriggio. È stato un incontro progressivo. Prima c’era una barriera che avevo messo io e aveva messo lei. Io l’avevo messa per abitudine, e lei perché, come tutte le persone di buon senso, voleva captarmi prima di incontrarmi.

    Le ho chiesto se poteva leggermi. E lei ha detto sì. Era fondamentale che non lo facesse per soldi, e ho sentito che era così, nonostante i soldi. Ha mosso le braccia attorno a me come se fossero vele. Pochi secondi. Ho sentito che ha sentito, non ho avuto paura.

    Ha visto che c’era un buco dove non doveva esserci. Che mi mancava qualcosa di mio, che era normale che fosse mio.

    Ho visto le sue sopracciglia incresparsi come di fronte ad un orrore. Non ci credeva quindi ha di nuovo veleggiato di fronte a me per sincerarsi di quel presentimento. Di morte.

    Si è spaventata, più di quanto lo fossi io. Io già sapevo, già sentivo. Non ho più paura che gli altri sentano.

    Si è affrettata a mettermi pietre sulla mano destra, cerotti minerali che potessero riportarmi ciò che non c’era più. La mia mano era aperta come un dolore. Accoglieva le pietre.

    Cosa sono le pietre? parole.

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    Lo ho sognato, anche questa notte. Aveva, cioè ha, dei capelli bellissimi, che non mi escono dagli occhi. Non sono mai usciti, da quando li ho visti per la prima volta. Non ricordo altro del sogno, se ci fossero parole, cioè invenzioni, cioè bugie, tra noi due. Così raramente riusciva a stare in silenzio. Non mi ha dato niente – di suo – mai.

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    Ricordo con precisione quando ti ho data. Non me l’ha chiesta. Ti ho data io. Perché?

    Vorrei mentire, vorrei dire – a me innanzitutto – che non ho potuto fare a meno di darti. Che lo desiderava, che ti desiderava. Addirittura che non sapeva di desiderarla, di desiderarti, ma che era così.

    Eri tu. Tu volevi.

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    Ora che non sei più mia – ancora mi domando come sia possibile, cioè come sia reale – vorrei confessarmi. Vorrei dirti che cosa ha significato per me darti.

    Per me dare significa perdere. Io non conosco cosa sia condividere. È una parola, è una invenzione. Se io do qualcosa di mio, io non lo ho più. E se lo do, l’ho dato. È successo, è già successo. Non ritornerà com’era. Mai più. Potrà tornare, potrà bussare alla mia porta supplicandomi con gli occhi pieni di latte di esserne di nuovo il tenutario, il possessore, il dolcissimo despota. Cosa vuol dire restituire? Si restituiscono gli oggetti, e niente è un oggetto. Ogni oggetto soggiace al tempo, tutto è tempo. Il tempo agisce inesorabile, alterando.

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    Spuntavano dallo scatolone all’intersezione tra Via Belpoggio e Via dell’Università le pantofole rosa che avevo comprato da Muji quattro anni fa. Avevo ammassato tutto ciò che in me era stato suo – suo senza che neanche lo sapesse. Eppure ventiquattro sacchi di immondizia nera e il comando dei carabinieri non erano bastati, ce n’era ancora. Ce n’è ancora così tanto.

    Avevo furiosamente riempito lo scatolone, dentro c’erano cose che erano state (e quindi sarebbero eternamente state) essenzialmente sue – cioè cose che non avevo mai sentito mie, mai, impossibile  – e cose mie che erano eternamente diventate sue senza che né io né lui lo volessimo. Però ricordo, ecco. Ricordo il giallo del cotone delle sue calze. La sottigliezza delle sue caviglie, i peli né ispidi né fragili, né troppi né pochi. La densità fredda delle ossa del tallone. La zigrinatura della pianta, la compostezza vittoriana delle unghie – ‘onge’ le chiamava – anche quando non le tagliava. Il suo alluce nella mia bocca come un dattero. Ricordo il giallo dentro al rosa delle pantofole – non avevo concesso, avevo concesso? insomma la stagione si era infreddolita e mai avrei voluto che i suoi piedi, cioè i miei piedi, patissero – lo stupore assoluto di veder questi due colori parlarsi, amarsi, giocare sul confine come due nemici amici. Non li avevo mai visti insieme.

    Quando con gli occhi esterrefatti mi ha visto montare verso di lui sul marciapiede di Via Belpoggio come un bufalo impazzito, sapeva che le parole che ci saremmo scambiati sarebbero durate per sempre?

    Guarda scioccato dentro lo scatolone aperto, vede le pantofole

    Apre la bocca: “Ma queste sono tue”

    La mia bocca è chiusa, le mie narici spalancate.

    Le parole sono invenzioni.

    Lo guardo con tutto di me. Spero che lui veda nei miei occhi la mia risposta.

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    Cosa vuol dire ‘nostro’? Per davvero, intendo.

    Cos’è casa nostra? I nostri soldi?

    Quando sento che al bambino si dice: “certo che è tuo, ma puoi prestarlo a Sebastiano Cosmo Nina Sofia così ci gioca un po’, e poi te lo ridà”, io entro nei muscoli delle falangi di quel bambino e mi contraggo e stringo e stringo stringo fortissimamente e non respiro e sento la perdita, la perdita completa e inesorabile, sento le lancette dell’orologio, le linee che si formano avide sulla fronte, quell’incubo nel dare che è perdere, interrompere la preservazione privata, devota, pura, della materia, materia che è sacra, materia che se è di me, è mia,

    non

    è

    nostra.

    se

    è

    nostra,

    anche tu

    sei

    me.

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    ti ho data a lui perché

    (volevi)

    ho deciso

    (non ha deciso)

    che lui

    era

    me

    mio

    Lui

    non era mio

    ti ho data

    per sempre

    sei

    per sempre

    perduta

    lui

    nemmeno sa

    di averti

    di avermi

    per sempre

    sono

    perduto

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    Ti prego:

    torna

    torna mi

    torna me

  • L’altro sono io

    L’altro sono io

    Il cazzo. Che poi? Il cazzo. Il cazzo come cosa bella da toccare da leccare da sentire da infilare? E il proprio cazzo? Non bastava? Ce ne voleva un altro? Fosse il cazzo, fosse quello. Gli piaceva il cazzo? Il culo il corpo le cosce la pancia le spalle le gambe le mani i piedi la bava l’odore acre l’odore dolce i fluidi tutti i fluidi la lama dei denti la zigrinatura delle unghie la gomma delle orecchie insomma insomma insomma, era l’interezza del corpo. Gli avrebbe scopato cioè gli aveva scopato persino il bulbo oculare.

    Della loro sessualità – così lontana dal sentimento così vicina all’emozione, così corpo, niente anima niente mai anima anima inesistente anima mia dove sei anima mia dove sei finita? – non era possibile constatarne altro che l’eclatanza. La loro presenza – la presenza di loro due in contatto, corpi fatti come fiammiferi accesi dentro una scatola satura di ossigeno – era come un caminetto mobile: sudore d’estate, gauche d’inverno. Non gli si poteva stare vicino senza sentirsi a disagio.

    Sesso sì, eros cioè. Occasionalmente, allusioni pornografiche – lui aveva insistito una volta per gli specchi (specchi enormi, da parete e da soffitto); era scappata una vanitò qua è là; poi i comportamenti stereotipati da seghe tra bestie; ma ecco, ecco, ecco, ecco! Quella volta da dietro inginocchiato sul letto grande lui aveva iniziato a sentire così tanto – lui che agli albori diceva: ‘io non faccio suoni durante il sesso, non è eccitante’, e l’altro che sognava sognava sognava di farlo ululare guaire gorgheggiare un pavone, amore mio, fuori la coda, pavone pa vo ne pa vo ne – che aveva iniziato a cantare. Se n’era accorto? Era un canto senza parole senza pause, continuo. Una litania una filastrocca. La sua voce libera da tutto il naso, da tutti i polmoni, voce che nasceva dall’ombelico peloso e come un diffusore di essenze spruzzava bagnava. Quando lui veniva era come se l’altro – l’altro che sono io– fosse finalmente pronto a, e felice di, morire.

    Non avevano non avevamo mai fatto l’amore. Forse una volta. Forse una volta – la volta che s’aveva da ricucire l’ennesimo litigio epico – quel tubo che per gli altri per le persone collega la pelvi al cuore aveva preso vita, in me, in lui. Entrambi avevamo coscienza che le riappacificazioni fossero sconfitte sottaciute, recite di saggezza e comprensività, compromessi inevitabili e necessari per poter restituire lo scettro al piacere, servi della sua dittatura.

    Non avevamo fatto l’amore avevamo fatto il piacere. L’avevamo fatto al punto da allontanarcene completamente. Ma non lontani nel senso il dolore, chè il dolore, il dolore quello piccolo, è il piacere, è sempre lì, è tutta una rima tutto un gioco di parole – c’era stata una volta in cui per del doloretto fisico al buchetto lui aveva tirato su millantazioni di non consensualità, per poi aggiungere “mi piace quando dici che ti viene da vomitare da quanto te lo infilo in bocca fino in fondo” – perché sì, a me viene su il vomito, e a me non piace, non piace ma tu lo spingi e io lo prendo, perchè io ti prendo e perché io sbaglio. E perché io ti prendo, e perché io sbaglio?

    Allontanarcene completamente. Lontani, lontanissimi. Da me, da lui? Plutone.
    Lontani nel senso di: noia. La noia di aver raggiunto meccaniche – ma non i dervisci in trance, anzi: l’annichilamento delle sinapsi, corpi ridotti allo stremo che si sfregano si sfregano ancora per ora per ore per una goccia di?


    Lontani nel senso di: terrore. Vedere il simbolico perso in un gioco senza più regole, inganno del tempo – tu la chiamavi: fantasia. Ricordo quando il divano era messo sul lato lungo in salotto, messo male. Io stavo parlando ma non per sedurti – stavo parlandoti per avvicinarmi, per dirti questo sono io – e tu hai iniziato a toccarti e io cosa avrei dovuto fare? “ce l’ho duro da un’ora, non so neanche come né perché”, ed ho sempre amato la tua innocenza, cioè la tua verità, cioè la tua follia.

    Ero lì, tu ti toccavi, ed ero terrorizzato. Terrorizzato perché? I tuoi occhi come interruttori dell’elettricità, imperscrutabili. Nessuna traccia di sentimento. Se non avessi avuto il cazzo duro non avrei mai saputo leggere dal tuo corpo che tu fossi eccitato. Eri fermo come una seggiola. Perché ero terrorizzato? Ero terrorizzato perché io – io per poter fare sesso e non l’amore – io devo recitare. Dove tu eri vero, io ero recita. E dove io ero vero, tu dov’eri? Plutone? L’altro: sono io l’altro?

    Questo è l’altro: è una mattina di agosto. Zagabria. Forse un lunedì. C’è luce quindi mattina, tarda. Siamo persi in uno spaziotempo indeterminato – come hai detto te: “da quando ci siamo conosciuti non abbiamo mai smesso di scopare”. Si, il tempo e lo spazio si muovono tra di noi come quando si scopa. Bacinelle d’acqua continuamente percosse, sassolini che emergono dal fondo e sborrano come bolle in superficie.

    Vuoi vedere una torre in un bosco a cui si arriva con una funivia? si voglio vedere una torre in un bosco a cui si arriva con una funivia. Tensione prima domestica poi nell’abitacolo o tu umori o io umori, insomma sempre umori. Umori amori umori amori sempre frizione, e quando penso a frizione penso a quando mi si secca l’asta perché sfrega contro il cotone Perofil dei boxer. Frizione sì eterna frizione mai pace. Non abbiamo mai avuto quattro testicoli, ne abbiamo avuti otto, sessantaquattro, duecentocinquantasei. Occhi come testicoli, retine come vasi spermatici, seme in produzione a ogni sguardo. Logorante.

    Ho il cazzo girato ovvero non sei sessuale verso di me. Probabilmente lo sei stato la sera prima probabilmente abbiamo litigato ma io adesso proprio adesso io io io solo io io sempre io io io voglio il tuo amore e quindi mi convinco che questa volta si proprio questa volta tu esploderai con il cuore le labbra gli occhi suoneranno le trombe si spalancherà il sipario e anelli e vestiti e danze cerimoniali e tu tu tu la tua bellezza tu farai uscire dalla tua bocca chiusa e viziosa come una gemma di fiori quelle frasi d’amore che faranno da custodia al mio cuore per il resto dei suoi giorni. Ed io avrò: pace.

    Parcheggiamo. Biglietti per la funivia. Silenzio e distanza nella cabina. Litigio. Due tre minuti massimo mi alzo e tiro un calcio al panchetto della cabina come farebbe uno scimpanzè: “se devo stare seduto qui con un estraneo che non ha il minimo piacere di condividere questo momento con me allora tieniti tu questo cazzo di biglietto e la tua cazzo di funivia”. Punto esclamativo punto esclamativo punto esclamativo. Tu zitto, basico, sdegnato, in shock.

    Ti piacciono le buone maniere. “Ti lascio”. Ok, mi lasci.

    Siamo in cima al bosco, lasciati. Non so dove sono ora prendo questa montagna in discesa e arrivo dove arrivo sono cazzi miei addio. Fingi di esser preoccupato. Io non lo sono per niente. Ciò che più amo della mia disperazione è la lucidità: sopravvivo meglio quando sono disperato. Io sono amore puro, tu lo sai. Lo sai ma lo odi. Allora vuoi sederti, e vuoi parlare. Parliamo.

    Non c’è niente da dirsi. No invece: beviamo una coca cola e mangiamo qualcosa. Hai fame hai sempre fame. Ora facciamo un commercial da terapia di coppia e diciamoci parole che sono premurose e speranzose. Non lo farò più. Quando fai così io sento cosà. Ma non parliamo della frizione, non parliamone. La frizione non si parla, si consuma.

    Sono passate due ore. Io ho pianto tu? Siamo in cima non ho detto non ho scritto che la torre è in manutenzione straordinaria quindi non si può salire in cima in cima la vera cima. Si può scendere giù, tornare. Scusa ho bisogno del bagno.

    Per entrare nel bagno dell’impianto di risalita cioè di ridiscesa si scendono due rampe di scale. È tutto buio. È tutto pulito. Tu dici (dopo): “questa impresa pubblica è stata realizzata con soldi di riciclaggio, è appena rinnovato l’intero impianto”. Il bagno freddissimo e immacolato. Non c’è nessuno. Ti guardo, capisci.

    Entro nello stall. Per primo. Mi tiro giù i pantaloni ti prendo la testa e la sbatto alla parete. Voglio spingerti forte fino a sentire amore. Voglio che ti togli i pantaloni anche tu perché se tu non vieni io non vengo. Non è vero ma è vero. Ti guardo dall’alto ma non riesco a guardarti tutto perché il grigio antracite delle piastrelle dello stall è freddo ed è liscio ed è qualcosa che voglio leccare ma che non lecco.

    Metto una mano tra la tua nuca e le piastrelle. Non so perché lo faccio. Perché tu non senta male? Ho sempre avuto una vaga sensazione che qualcosa in te vada in cortocircuito elettrico se ti arrendi completamente. Non te l’ho mai detto. Metto la mano tengo la mano. Non voglio tenere la mano. Spingo, spingo come un esercito di formiche. Guardo le fughe delle piastrelle immagino formiche, un’orda di formiche da Plutone che invadono questo stall cioè questo cesso di questa funivia di questa città di questo cesso di città di questo cesso di funivia di questo attimo indimenticabile eterno formiche formiche formiche formiche io non posso sbattere la tua nuca contro le piastrelle quindi sbatto la mia fronte fino a farmi male fino a sentire osso su osso osso su osso ritmo ritmo ritmo farcitura di formiche frittura di formiche vengo vieni vengo vieni vengo vieni vengo vieni. Guardo il seme. Il mio non mi interessa. È dentro. Guardo il tuo per terra sulle piastrelle pulite. Antracite. Quando vieni è come se io – io che sono l’altro – io stia finalmente, felicemente, nascendo.

    Ci ricomponiamo. Nell’arco di due tre quattro secondi entrano un padre con un bambino a lavarsi le mani. Aspettiamo che lascino la stanza del bagno e usciamo dallo stall: dal cesso, dai. Ci laviamo le mani. Non ci baciamo. Neanche una parola. Formiche ovunque nessuna formica. Ti amo. Non abbiamo mai fatto l’amore. Ti amo. Non abbiamo mai fatto l’amore. Ti amo.

  • Emma

    Emma

    Emma era la donna di servizio. A vederla da lontano sembrava proprio una donna di servizio. A lei il termine non piaceva, ma neppure collaboratrice domestica. Se le chiedevi cosa facesse per vivere ti rispondeva semplicemente: io lavoro. E su quell’io si sentiva un accento, perché Emma era orgogliosa di se stessa. Non stava con nessuno, e nessuno la manteneva, tantomeno un uomo.

    Quando prese a lavorare a casa nostra avevo diciassette anni, Emma più di cinquanta. Né alta né bassa, le forme generose, una cesta di capelli ricci nerissimi. Ma io la osservavo sempre, con attenzione, sempre. Erano i dettagli che mi interessavano. C’era una gran differenza tra vederla da lontano e osservarla da vicino, nel tepore della casa, al riparo dal sole. Dentro si muoveva a suo agio, con eleganza, fuori no. Fuori, nel sole caracollava, gettando un ombra grande e informe sul terreno.

    Ma parlavo dei dettagli, e per i dettagli bisogna stare vicini. In quel periodo studiavo sempre a piano terra, e lei puliva il soppalco, poco sopra il mio punto d’osservazione. Cominciai così in realtà, perché mi accorsi di una roba da niente, che non era facile notare da un’altra posizione.

    Le caviglie, terminali di un sedere grande, morbido e di cosce forti, erano sorprendentemente delicate. E i piedi, affondati nella grandi ciabatte di gomma, coperti sempre dalle calze di nylon, erano affusolati come punte di lancia. Le dita perfettamente proporzionate dietro la cucitura di rinforzo, il tallone emergeva un poco. Il malleolo e l’arco del piede erano forti, ad angolo ma dolci. Che cosa avevano a che fare i piedi e le caviglie, con tutto il resto? Intuivo delicatezze, un senso per le cose raffinato e strano. Il tutto deposto in un luogo inaccessibile, volontariamente mascherato e contraffatto. Il corpo di Emma aveva dei segreti.

    Sempre coperta da pantaloni spessi, jeans e maglioni e maglioncini che la occultavano fino al collo, non si scopriva mai. Non mi rimanevano che le estremità.

    Le mani anche, quando non erano affondate nei guanti di gomma rivelavano un andamento dolce, mai incerto. La funzione tattile era tanto sviluppata in lei che quasi non la sentivi mentre caricava la lavastoviglie o toglieva la polvere. Non portava mai anelli, e non c’era ruga o vena che ne cambiasse la pasta, tenue sì, ma viva. Solo le unghie erano sempre laccate, rosa tenue anche quelle. Il collo ombreggiato dai ricci e le orecchie, piccole e attaccate alla testa non si vedevano, quasi mai.

    Ma nel volto adesso riuscivo a scorgere altre cose. Grazie a quello che avevo appreso dalle periferie adesso il suo centro mi parlava. Grandi palpebre coprivano occhi verdissimi, il naso con le pinne rilevate ad arco come si trova in certe donne della bassa padana, da dove veniva. La bocca grande, carnosa ma composta, raramente aperta in sorriso. Un volto passionale diremmo, ma che non si offre. Io mi limitavo ad osservare, e solo gli occhi la cercavano sempre.

    Ogni tanto veniva la mia ragazza, Francesca. Mi aiutava con matematica, la sola materia in cui non sono mai andato bene. Francesca mi riprendeva, mi scuoteva, stai sui numeri diceva. Non era facile quando Emma era in giro. Francesca non si accorgeva di nulla, e in fondo il nostro non era un rapporto. Stavamo e non stavamo insieme, e lei mi voleva bene ma non era innamorata, me lo aveva detto. Io non avevo replicato. L’amore lo avevamo fatto un paio di volte, ma senza quel ché, in macchina di lei nel parcheggio dietro casa. Perché Francesca aveva già il foglio rosa. Era stato più esplorare la scomodità di farlo, dirci che potevamo. Solo una volta lo facemmo a casa mia, proprio mentre Emma era in casa. Fu anche l’ultima. Mentre eravamo a letto, nel letto di mia madre perché Emma stava pulendo la mia camera, la porta si aprì ed Emma mi vide e io vidi lei. Francesca era voltata di spalle e non si accorse.

    Emma per la prima volta sollevò le palpebre bene in alto. Nulla mutò nell’espressione, solo gli occhi si spalancarono per qualche secondo. Poi quelli di lei si abbassarono di nuovo, le saracinesche si chiusero, la porta tornò ad accostarsi.

    Dopo questo fatto per molto tempo evitai di stare in casa quando c’era Emma. Non era solo esser stato scoperto, piuttosto essere stato visto, visto davvero. Eppure ci pensavo.

    Ogni tanto chiedevo a mia madre, quando aveva tempo per me. Indagavo, ma che vita fa Emma? È un po’ che lavora da noi e non ne so nulla. Ha una famiglia?

    Mia madre sapeva, cioè quello che sapevano tutti tranne me. Emma veniva da una famiglia, come si dice, caduta in disgrazia. Suo padre era un mezzadro, che era diventato proprietario, e da povero ricco. Ma era anche un uomo violento, che alzava la mani. Anche la moglie e le figlie, diceva, e la moglie era una donna timida e sottile, che proprio non si sentiva mai.

    Aveva la passione per le donne l’uomo, e a forza di donne s’era beccato una malattia da secolo scorso. La sifilide. Era morto pazzo, e i soldi se n’erano andati già da tempo, con la casa e tutto.

    Così Emma e sua sorella s’erano date da fare, all’inizio pulivano alle medie ma niente contratto, quindi lavoravano dove capitava. Finché la sorella, Giuliana, che era tanto bellina e non come Emma, così riservata e scura, s’era fidanzata con uno di Milano ed era andata a vivere con lui. Ma anche lì.

    Eh insomma, sembra che Giuliana si sia trovata uno come il padre, che beve.

    Mia madre era sovrappensiero, questa storia la costringeva a porsi delle domande, il filo del discorso portava oltre.

    Che pensi?

    Faceva spallucce.

    Mi chiedo perché, ecco. Perché una donna debba cercare qualcuno che somiglia al padre.

    Voleva dire, a un padre del genere.

    La domanda rimase a mezzo, nell’aria per diversi giorni, così decisi che volevo rivederla. Confrontare queste cose che sapevo adesso, di nuovo rubare con gli occhi informazioni al suo corpo. Costringerlo a parlarmi, perché a voce non avrei saputo.

    Rientrai prima e la trovai in cucina. Non c’eravamo più incrociati da quel giorno. Vedendomi era sorpresa, mi sorrise.

    Che fai?

    Lavoro.

    Restai lì per un certo tempo, ad osservarla, fingendo di fare altro. Lei finse di lavorare. Io finsi di non guardarla. Finse di non accorgersene, che non le importasse. Finsi allora di perdere la presa sui fogli che avevo in mano, i fogli mi presero sul serio e si sparpagliarono. Lei finse di spostarsi fino al mio tavolo per aiutarmi a raccoglierli. Entrambi in ginocchio sui fogli, continuavamo a fingere che ci interessassero.

    Avevo già in gran parte consumato quel corpo, almeno le informazioni che mi erano concesse le avevo frantumate e deglutite, ma c’erano altri modi per prendere. Lei era vicina, in terra carponi come me e sentivo finalmente il suo odore. Era denso e buono. Per un po’ mi accontentai di questo, mentre i fogli venivano riportati in ordine, pagina settantasei, settantasette eccola qui. Il suo grosso corpo si muoveva bene, come sempre.

    Ma poi mi venne il pensiero di toccarla. I piccoli piedi le uscivano dalle ciabatte e pensai, ma era un qualcosa di troppo veloce per essere davvero un pensiero. Le presi la caviglia, la periferia ancora mi bastava, e mi chinai a baciarla.

    Emma si voltò. Fermo.

    Ero paralizzato e non osavo guardarla, fissavo intensamente i fogli cercando di anagrammarli, di tirar fuori da quelle parole scomposte una frase che avesse un senso.

    Scusami.

    La sua mano mi accarezzò la testa, così lievemente, sfiorando appena le punte dei capelli.

    Ascoltami…Sei giovane. Ma non è questo.

    E allora?

    Non ti piacerebbe.

    Perché?

    Ho visto come lo fai con la tua fidanzata.

    Non è la mia fidanzata.

    Non ti piacerebbe lo stesso.

    Perché?

    Perché perché. È così e basta.

    Mi fece rialzare, si ricompose. Poggiò i fogli, mi salutò con un sorriso e se ne andò. Per qualche giorno si diede malata, e pensai di averla perduta per sempre, ma mi sbagliavo.

    Un giorno rientrai a casa e la vidi lì, con mia madre parlottare. Quando mi videro smisero di parlare, ma capii subito che non ero io l’argomento. Mia madre mi accolse col suo solito fare allegro e distante, e mi spiegò che Emma ci salutava. Stava dando le dimissioni. Chiesi allora, perché non potevo non farlo.

    Perché?

    Emma spalancò bene gli occhi e me li gettò in faccia. Mia sorella che abita a Milano, disse. Aspetta un bambino e dovrò stare con lei per un po’.

    Quando parti?

    Tra due giorni. Sarò da voi domani, in mattinata. Poi basta. Mi ritirai in camera mia, mia madre uscì, Emma pure. Dormii male. Durante il sonno ebbi un orgasmo, un orgasmo di mani e di piedi e palpebre pesanti che si spalancano e si chiudono, si espandono e si rapprendono come palloncini. Linee e punti che si increspano e si distendono.

    L’indomani avevo la febbre e mia madre fu contenta di lasciarmi a casa. Dopo un po’, ecco: i rumori lievi di Emma in casa nostra. Cercavo di capire cosa stesse facendo, di osservarla attraverso i muri: puliva forse la credenza, il piano cottura?

    Sentii bussare. Era Emma che mi portava una spremuta d’arancia. Nell’altra mano reggeva una borsa di panni. Posò la spremuta, poi si sedette sul letto, una confidenza tutta nuova.

    Grazie Emma.

    Ho bisogno che mi aiuti.

    Dimmi.

    Tua mamma, mi ha regalato dei vestiti suoi. Ne ha tanti, ma io non so scegliere. Mi avvicinò le mani alla fronte come per sentirmi la febbre, ma senza toccarmi. I pochi millimetri che separavano la sua carne dalla mia erano sufficienti per trasmettere il tepore della pelle di entrambi. Ma di più non si poteva, quello era il suo limite. Ritirò la mano, con lentezza.

    Puoi farcela, non sembri grave.

    Sì.

    Dalla borsa tolse una gonna di velluto scamosciato. Si sbottonò i pantaloni di feltro pesant. La sua carne uscì alla luce, rosa, la carne piena delle cosce e dei glutei, la pancia. I collant neri la occultavano parzialmente, ma si vedeva che sotto non aveva gli slip.

    Mi alzai sul busto e posai la mano sulla sua gamba. La scostò con dolcezza, si mise rapidamente la gonna senza guardarmi, si allontanò di due passi.

    Mi sta bene?

    Sì.

    Poi mi guardò di nuovo, con serietà.

    Io ti piaccio.

    Sì. Ma devi fare come dico io.

    Sì.

    Non mi puoi toccare.

    Senza pensarci mi ero alzato e stavo in piedi. Mi fece segno di arretrare. Lei si sedette sul letto, con gli occhi di nuovo bene aperti. Lentamente alzò la gonna di velluto e mostrò di nuovo le cosce, poi il resto. Siediti sulla poltrona di fronte.

    Feci quello che mi chiedeva. Le gambe di Emma si aprirono allora, e vidi la sua fica sotto l’ombra della gonna e dietro i collant, una fica giovane e piccola, con un filo di peli nerissimi sopra. Proprio come pensavo, la mano come il piede come la sua fica, come la carne delle sue palpebre.

    Toccati.

    Abbassai allora i pantaloni del pigiama, lei abbassò i collant appena appena, arrotolandoli sulla sua carne viva e bianca, facendosi stringere dal nastro di nylon.

    Prese a toccarsi e io lo stesso. Il suo volto piano piano si contrasse, si tese e gli occhi si chiusero. Finché tutte le linee che la componevano si fusero in un punto solo, incredibilmente denso.

  • Cane Bianco

    Cane Bianco

    Federica porta il cane a pisciare e quello è il momento più bello della giornata. Perché Cane Bianco ha bisogno di fare un bel giro e di pisciare tanto.

    I genitori di Federica le stanno sempre attaccati, la mamma una volta belloccia, il padre secco-secco. Così diversi, ma tutti e due stanno a guardia di Federica. L’unico modo di essere libera è portare Cane Bianco a pisciare.

    Si capisce, Federica è bella. Il seno è fiorito tutto insieme. Ha diciott’anni, è quella che prende dieci in latino ed è quella che non ha amici. Non ha neppure un fidanzato a guardar bene. Ha solo Cane Bianco, e me.

    Cane Bianco ama soprattutto un bel giro in pineta. Anche d’inverno, col muschio e le felci zuppe d’acqua. Aspetto, nella piazzola segreta che si raggiunge uscendo dalla ciclabile. Bel tempo, brutto tempo, io sono lì.

    I ragazzi incontrano Federica quasi ogni giorno. Sono quelli della scuola e dello sport, che si sono passati la voce. C’è il riccetto, quello in sovrappeso e quell’altro, con la faccia a punta, da faina. Tutti portano un regalo: qualcosa, e un telo. Ma del telo spesso non c’è bisogno, perché Federica non ha troppo tempo, e poi potrebbe sempre passare qualcuno. Meglio farlo in piedi, la schiena poggiata a un pino, pronti alla fuga. Nei boschi spesso ti prende qualcosa, ti senti osservato.

    Cane Bianco viene legato, mentre Federica si alza la gonna e apre le cosce. C’è una forma di poesia, una certa dimenticanza nel modo in cui si fa prendere.

    Il cane, osservatore muto, registra. Gli amanti scivolano sulle cornee lacrimose, i cazzi e le mani nelle cosce, e un pezzo di culo bianco come la luna, tutto sosta un momento negli occhi di Cane Bianco.

    Federica non ha tutto il pomeriggio, sa che c’è un limite preciso oltre il quale Cane Bianco comincerà ad uggiolare, non si deve buttare via il tempo. Orgasmo o meno, Federica è generosa, quello che chiedono fa.

    Io sono innamorato di Federica, e sono amico di Cane Bianco. Mi avvicino piano piano alla radura e vedo quello che passa sugli occhi del cane. C’è un angolo morto da cui nessuno mi vede, da cui faccio una carezza al cane e adagio i miei occhi nei suoi. Negli occhi, vedo lei. Lei accucciata sul telo, carponi, lei in ginocchio e lei sopra, coni capezzoli che sono due macchie di vino sulla pelle bianca, occhi sotto le palpebre del maglione pesante. Io e lui ci capiamo: non mi denuncerà mai Cane Bianco, non abbaierà mai.

    Solo io e Cane Bianco possiamo guardare. Se becco un altro guardone lo uccido. Una volta ho sorpreso un ragazzino con la faccia di pustole, osservava la scena da dietro un mirto e aveva il cazzo in mano. L’ho guardato senza aprire bocca, ma non con gli occhi di Cane Bianco, che sono immensi e dolci. L’ho guardato con gli occhi di un uomo, ed è sparito.

    Federica è troppo lontana, io per lei non esisto. E forse riesco ad amarla solo attraverso gli occhi di Cane Bianco. Gli occhi del tuo amore sono troppo pesanti mi disse qualcuno, impossibili da sostenere. Sono un fatto. Ma negli occhi di CaneBianco c’è spazio abbastanza per tutti.

    Per Federica, per i suoi amanti, e anche per me.

  • Volontà

    Volontà

    “A te io appartengo, sia fatta la tua volontà.”

    Palle vuote ora. Ora il capo chino a guisa di penitente. Gli occhi appoggiati, biglie vuote sulla veste che si gli era accartocciata come un nido nero attorno alle scarpe. Nere anche le scarpe, da tennis, brutte. Paffute grosse gonfie, vicine alla disabilità o all’anzianità.

    Di anni ne portava ventinove, eppure il suo corpo parlava di una verginità bambinesca. Eppure i peli, più fitti attorno ai capezzoli e alle clavicole, arrotolati come code di maialini matti di gioia. Eppure il sudore del fondoschiena nelle giornate afose di giugno: odore grasso livido, desiderio macchiato dalla vergogna. Percepiva quanto erotica fosse agli occhi dei fedeli la messinscena del suo celibato? Godeva sapendo di far godere? Era invece del tutto ignaro? E lui lui come godeva? Di cosa godeva?

    Perché noi, noi ai piedi dell’altare, noi le labbra aperte sulle sue unghie tagliatissime per mangiare il corpo consacrato, noi altri noi chi noi gente fatta di peccato di piacere di pressione di peccato di piacere di pressione, non potevamo fare a meno di domandarci se ciò che lui più amasse fosse mettere in scena la propria fame nel più sacro dei palcoscenici. Ci sono prime donne che si coprono fino all’invisibilità pur di essere notate.

    Lui? Lui immaginava sognava di esser compatito, o piuttosto di esser concupito fino alla blasfemia? Lui che non smetteva, respiro dopo respiro sospiro dopo sospiro masturbazione dopo masturbazione omelia dopo omelia, di ripetere: “A te io appartengo”.

    Gli attacchi di cefalea a grappolo si erano fatti più lancinanti nelle ultime settimane. A circa un’ora dall’addormentamento, dal retro dell’orbita destra iniziava a pulsare una forza scura che nemmeno gli antiemicranici erano in grado di sedare. In questo male nel mezzo di questo male –cioè nel fondo, nel fondo del suo letto singolo nel fondo delle sue lenzuola poco pregiate bianche bianchissime candeggina candegginissima nel fondo del suo corridoio candeggiato nel fondo della sua parrocchia candeggiata nel fondo della notte sola come un segreto – lui pregava, diceva preghiere più vicine al grammelot che ai salmi, chiedeva perdono e perdono e ancora – l’occhio ora lacrimava di gocce cristalline – perdono. Perdono e non sapeva per cosa, perdono pur che quella tensione dolorosa abbandonasse il corpo ad esso concedesse come ad un nemico indebolito qualche ora di tregua l’illusione di una ritirata la bugia ecco la bugia. Perché le aveva mentito? Era a lei che desiderava appartenere? Appartenere poteva essere una scelta un desiderio oppure era un destino?

    Rotocalchi sbiaditi, dettagli di lei di un venerdì piovoso, l’ocra del velluto fasciava i suoi fianchi morigerati, un’unghia spezzata spuntava dalla manica della giacca aperta, il labbro gonfio dalla disidratazione, il capezzolo che aveva lasciato un’increspatura sul cotone, l’impressione di gomiti appuntiti e fragili. Il corpo di lei era diventato un pensiero di lui. Non era riuscito a dire niente se non con l’affanno del respiro. Lei lo aveva sentito?

    Trasformazione degradazione trasformazione degradazione. “Cosa mi sta succedendo cosa vuoi che mi succeda come vuoi che mi succeda quale è la tua volontà?”

    Genuflesso di fronte alla settima stazione – un affresco molle, i profili delle donne indistinguibili dal marrone del paesaggio, fogliame denso come nuvole – non riusciva a toccare la coda dei suoi desideri. Nel vuoto che la chiesa del Santissimo Redentore regalava il primo pomeriggio, i suoi tormenti si facevano torri di fumo, aria calda che saliva verso le arcate in cerca di rarefazione: eppure lei le lettere del suo nome il suo nome intero rinasceva, tornava a nascere, puntini neri sotto le mandibole il mattino dopo una rasatura dal barbiere.

    Trasformazione o degradazione il pensiero – il pensiero nobile, cosa è l’amore – no: il pensiero si era fatto calore sotto le ascelle ed una goccia fredda ghiaccio ghiaccio secco gli era caduta sul costato. Una nuova trasformazione una nuova trasformazione il pensiero stava facendosi sussurrio, la bocca impercettibilmente aperta – non importa se qualcuno mi sente, sentimi tu, questa è la mia voce – stava nascendo una preghiera?

    “Se hai disegnato questo corpo no mi spiego meglio se hai disegnato queste palle grandi quanto melograni non quanto mongolfiere se hai disegnato un tubo di deflusso se hai disegnato queste cellule perché continuino a proliferare a farsi succo incessante a farsi vita, nell’astinenza che mi chiedi mi stai chiedendo di cancellare il tuo disegno?”

    Chi stava chiedendo, cosa stava chiedendo, quale chiedere ascoltare. A chiedere ora era il suo corpo, il suo corpo piccolo piccolissimo infinitesimamente piccolo unico diviso da ogni altro corpo circostante. A chiedergli. Il suo corpo – non ancora nella sua interezza, piuttosto un groviglio di nervi che separava la radice delle palle dal buco del culo, una gemma rossa incastonata nel pavimento pelvico – spingeva a lei e su di lei voleva appoggiarsi, passerotto sul davanzale di un boulevard trafficato di città.

    Le ginocchia avevano cominciato a fargli male ed il malumore l’aveva avvolto come un impermeabile bagnato. “Non so se si tratti di trasformazione o degradazione, ma questo pensiero ha smesso di essere un pensiero”. Si mise a camminare lungo il transetto come se stesse guadando un fiume di fango. Scarpe nere stivali di gomma guardò la chiesa vuota si scoprì aperto e imbarazzato in un sorriso tutto di gengive. Scarpe nere ballerine rosa prima di inforcare la porta che portava alla sagrestia che portava fuori – dentro fuori fuori dentro dentro la testa fuori di testa che male la testa che brutto male – scoppiò in una piroetta: nessun pensiero, nessuna volontà, nessun dolore.

  • Ave Eva

    Ave Eva

    Ho sempre maneggiato cazzi. Nel senso, me ne sono passati tanti tra le mani, li conosco, so cosa fare. Anzi, posso proprio dire che se c’è una cosa che mi riesce bene, questa cosa è tenere un cazzo in mano.

    Mi piace. Il cazzo è semplice. Sta lì: esplicito, esposto, onesto.

    Non ha segreti. Lo vedo e lo capisco.

    Dallo a me, ci penso io.

    Poi sì, c’è tutto il resto, va bene. Ma a volte mi dimentico pure che attaccato c’è un uomo. Con il cazzo ho un rapporto speciale: lo so toccare, sentire, so conversarci. O meglio, sono le mie mani a sapere cosa fare. Io posso anche pensare ad altro se voglio, fanno tutto loro.

    C’è la mia mano e c’è il suo cazzo, le mie dita e la sua pelle si parlano in quell’alfabeto privato intraducibile, simile a un valzer. La mano sa sempre cosa deve fare, ci pensa lei. Interpreta le sue richieste silenziose, capisce come assecondarlo, prevenirlo, accompagnarlo nelle sue forme che cambiano. Vene pulsanti sotto i miei polpastrelli, come codice Morse. La carne plasmata fino all’erezione, l’orgasmo, o quello che mi serve in quel momento. Quello che decidono le mie mani.

    Insomma, ho sempre maneggiato cazzi.

    A questo ho pensato la prima volta che immobile, muta, completamente pietrificata, mi sono ritrovata davanti una donna nuda.

    Mi ricordo quando a scuola studiavo il Romanticismo, il concetto di sublime, quel sentimento misto di terrore e attrazione, che sottende la vista di qualcosa di eccelso e spettacolare, capace di colpire e innalzare l’animo dello spettatore. Qualcosa che spaventa, ma attira al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo.

    A me il corpo di una donna fa questo effetto. È uno spettacolo sublime. Già giorni prima, mentre la baciavo, e sentivo le sue guance lisce come le mie, le sue labbra gonfie e morbide come le mie, l’odore della pelle leggero e vanigliato, avevo avuto un senso di vertigine. La percezione di essere al cospetto di qualcosa di familiare e alieno, irresistibile e incontrollabile. Ora lei è qui, nuda, sdraiata, divaricata davanti a me.

    La sua fica è aperta e imperscrutabile, come un varco su un’altra dimensione. Penso: il cazzo è un oggetto, la fica è un luogo.

    È calda e umida, come qualcosa di giusto, come dove c’è vita. È pronta.

    Mi aspetta, mi richiede. Io mi sento paralizzata, davanti a un regalo che non mi merito, un’accoglienza di cui non sono degna.

    Sono interdetta, non riesco a guardare, non riesco a non guardare. Resto, letteralmente, con le mani in mano.

    Corpo di donna. Io, che donna lo sono e nel mio corpo ci vivo, fin dall’inizio con queste stesse mani che ora tremano, ne ho studiato le potenzialità e i limiti, i segreti e i misteri, e ne conosco con violenza e dolcezza ogni millimetro e ogni cellula. Ora ho davanti a me un altro corpo mio, che mio non è.

    E non riesco a muovermi. Non so cosa fare.

    Adesso la capisco la paura. Il terrore atavico degli uomini, che genera il panico della repressione e il delirio di controllo sui corpi delle donne, dalla notte dei tempi.

    Oh, se capisco.

    Poveretti. Costretti a odiare perché espulsi, esclusi. È questa la cacciata dal paradiso? Ridotti alla violenza perché incapaci di amare nel dolore del distacco. È troppo da sopportare, vero? Tragedia insostenibile per questa piccola, miserabile razza che non siamo altro.

    Qui dentro c’è tutto.

    La promessa di una via di fuga, la salvezza. L’incognita della trappola, la dannazione. Entrambe le cose.

    Rimango inerme, di fronte al perimetro di una rivelazione di cui ne intuisco appena la potenza e penso che sì, questa è davvero l’origine del mondo.

    Toccami, mi dice lei.

    Dì soltanto una parola e io sarò salvata, penso.

    Sono inginocchiata davanti a lei, come in preghiera. Il mio corpo sa flettersi, piegarsi, subire. Io so ricevere, accogliere, assorbire. So incassare colpi e carezze, dilatarmi e stringere, darmi oltre la soglia del dolore. So farmi invadere, possedere. Io so prendere. So diventare io più un altro. Io più qualcosa.

    Ma non sono mai entrata in nessuna persona.

    Questa è la prima volta che a penetrare sono io, e mi sembra un gesto assurdo, inaudito. Scopro ora, troppo tardi e senza senso, che provo un rispetto e una riverenza difficili da spiegare. Timore e amore. Qui non c’è muscolo, pelo, ruvidità. Questa pelle è liscia, questa carne è morbida come la mia, non può fare male. Provo tenerezza, è devastante.

    È lei a prendermi la mano. È lei ad avvicinarsela al clitoride. Mi ha accompagnata, con la pietà di una divinità benevola. Un contatto che è un sorriso in terra straniera, quando nessuna parola può colmare l’incomunicabilità.

    La tocco piano, la sfioro appena.

    La punta delle mie dita, lievissime su di lei, come vibrazione di ali di libellula. Allora cedo, e lascio che siano le mie mani, ancora una volta, ad arrivare dove io non arrivo.

    Andate avanti voi mani, vicarie dell’amore e della mia volontà. Ama la prossima tua, come te stessa. Fate a lei quello che fate a me.

    Osservo le mie dita su di lei e penso: falangi. Falangi queste piccole ossa, falangi come la fanteria dell’esercito in prima linea, lo schieramento frontale che avanza.

    Falangi che entrano.

    Sento un’iniziale resistenza, membrana che si piega ma non cede, come la tensione superficiale dell’acqua quando cade un petalo. Mi ricorda un fiore tropicale carnoso e osceno, un bocciolo di ibisco non ancora schiuso. Spingo un po’ di più.

    Due dita dentro.

    Lei si inarca e cambia peso, consistenza, gravità, pianeta. Mi corre incontro un brivido suo che diventa mio, una scossa che passa da schiena a schiena, un respiro soffocato in gola che sembra un spavento muto, reciproco.

    Passa un minuto, una vita, un’ora.

    Mi muovo come fa la marea che ubbidisce alla luna.

    Lei che geme sommessa, sommersa, mormorio ctonio di fiumi di nervi invisibili, io che mi faccio strada imitando le onde.

    La sua lava bianca tra la dita, encomio supremo, applauso di miele, rugiada su cavi elettrici.

    Il piacere di una donna è un assolo che si fa orchestra.

    Che bella che è.

    Che spettacolo della natura, che capolavoro irraggiungibile è una donna che gode.

    Appoggio l’altra mano sul suo ventre, in basso, sopra il pube. Le mie dita che si percepiscono a vicenda attraverso il suo corpo. La diversa materia delle sue carni tra le mie mani, sopra e sotto, dentro e fuori. Penso che questo sia un posto bellissimo dove stare. Questi pochi centimetri che abbiamo creato qui sono un luogo stupendo, un delimitato e infinito, concreto e inafferrabile pezzo di paradiso.

    Penso a lei, a me. Penso a mia mamma, a mia nonna, alla figlia che non ho. Penso a tutte le donne, carne della mia carne.

    E mentre sento che sta per venire, stretta alle mie dita come pugno di neonato, in contrazioni che pulsano all’unisono con il mio sangue nelle tempie, penso a Maria, concepita senza il piacere e penso a Eva, punita per il desiderio.

    Ave Eva.

    Gonfia di vita come soldato in trincea, mi curvo sotto le esplosioni dei suoi gemiti, sempre più forti, sempre più vicini. Appoggio la fronte sul suo sesso e in un sussurro che mormoro appena, recito una preghiera blasfema per noi peccatrici, disgraziate piene di grazia, benedetto il frutto del nostro seno ma maledette noi, prego per noi, godo per noi, adesso e nell’ora del nostro orgasmo.

    Amen.

    Vieni.

     

  • Rosa

    Rosa

    Gli occhi ce li aveva. Come spade. No come spade, come tutto. Occhi per dire tutto. Tondi piatti vuoti secchi aguzzi opachi gonfi. Non cambiavano colore non era uno di quelli a cui cambiava il colore degli occhi.

    Il colore. Soltanto il colore. Il mondo era colore, variazioni impercettibili e commistioni e pastrugni e blocchi e defusioni. Forme certo ma colori, colori innanzitutto. Il mondo le persone no le persone la vita nelle persone la vita nel mondo era colore. Questo era il vocabolario che portava con sé in una cartella che non sapeva si chiamasse cartella.

    Sordo lo si era capito dalla nascita – non girava gli occhi al richiamo di mamma e papà. Guardava prima la luce forte poi contrasti poi i gialli poi i viola guardava poi i pattern, con le dita scorreva sui pattern i suoi occhi si facevano pianeti. Occhi pianeti nei suoi pianeti un cosmo, nessuna parola da dirsi, un universo di parole.

    Le speranze del nucleo familiare si erano avvolte attorno ai logopedisti come fili di ferro su mazzetti di primule. Si erano sbracciati più che potevano: diagnostica, valutazioni psicologiche, trattamenti sperimentali. I primi tre anni si erano consumati come vigilie eterne di un Natale senza nascita. Bruno non diceva una parola. Mai ne avrebbe detta una.

    Quegli occhi però. In quegli occhi, paragrafi e note a piè di pagine, e neologismi, triplette, endecasillabi, pentametri giambici, canzonacce e canzonette e canti lirici! E poi emozioni, emozioni senza nome senza capo senza coda guardava gli animali e con gli animali si raccontava storie e respiravano insieme come se stessero facendo un comizio. Bruno parlava da quando apriva gli occhi a quando non si chiudevano proprio non si chiudevano.

    Non si chiudevano, occhi sempre aperti, notte sola e di ovatta, una vuotezza senza contorno in questa sala da cinema buia in replay continuo il colore di un fiore di un marciapiede, Veronica Luna Polo aveva una lentiggine rossa sulla guancia destra in prima elementare, il giallo del croissant della Panetteria del Santissimo Redentore era leggermente saturo, la fluorescenza delle luci del semaforo che rifrangeva sulle strisce pedonali come se fossero raggi di lune, il verde di quell’arbusto in giardino diceva ho bisogno di aiuto ma di quale aiuto? Tutti i colori parlavano e dicevano e la notte correva così, viva e troppa.

    Oggi, grande, grosso e stretto come una scala a pioli, non aveva mestiere. Poteva averlo: il suo corpo era sano ed abile, capace di svolgere le funzioni autonome in piena competenza. Ma a che pro? Per lui vivere era lasciarsi colorare dalla vita, e nel susseguirsi di questi colori, cercava di dare un senso al suo tempo. Pensava, sì certo che pensava, ma non sotto forma di pensieri. Piuttosto di analogie tra oggetti che aveva visto un pomeriggio in un negozio cinese e poi sul cornicione di un edificio alto alto, quasi sul tetto. Ingranaggi, meccanismi, misurazioni. In assenza di linguaggio la mappatura della sua realtà avveniva per somiglianze.

    Lei non sapeva che nome avesse né avrebbe potuto capirlo. Quando diceva il suo nome lui le guardava le labbra stringersi poi tendersi poi farsi sottili. Sullo sfondo quadrati bianchi e duri, tutti in serie come una catena montuosa. Poi ricordi di quel pomeriggio passato al caffè a scrivere sulla carta così ruvida così non carta di nuovo il nome le sue lettere ma niente niente niente Bruno che non sapeva di esser Bruno che non sentiva il suo nome che non lo diceva Bruno che era Bruno esseva Bruno esseva continuativamente Bruno vedeva l’inchiostro blu e pensava “questo colore come quando gli alberi diventano di quel colore prima del cielo”.

    Ma sapeva che era lei perché quando le si avvicinava per abbracciarla, non solo la cappella nei boxer diventava rosa rossa viola blu turgida come quella di un animale, ma perché i suoi occhi trovavano una forma di pausa, di risposo. Rimanevano fissi. I colori della periferia della faccia del collo del corpo improvvisamente scomparsi un cerchio che si stringe attorno al suo volto, nemmeno tutto il volto, prima l’occhio sinistro, poi l’occhio destro, poi ancora quello sinistro, poi quello destro, mai tutte e due assieme. Aveva imparato, nei mesi –mesi che forse erano giorni secondi, di certo non era buio, la notte non era ancora nata – in cui si erano guardati, la precisa geometria dei colori nelle sue iridi. Non riusciva a smettere di guardarla. La prima volta che le tolse le mutande – federe polverose travi di legno con i chiodi che bucavano le calze, bicchieri di vetro spessi e in un angolo un porta cenere in ottone ossidato – gli occhi gli si misero a bruciare per l’intensità del colore. Era un colore come una giungla e come una tomba e come un lago.

    Chiamava, era un colore con una voce che lo chiamava. Come era possibile? Come era possibile che lui sentisse? Era questo il suono? Un colore così potente da far vibrare i timpani? Appoggiò la bocca. Poi strofinò il naso. Si mise come a premerle addosso con la fronte, sentiva la pelvi di lei ed era calda come un’incudine. Stava arrivando a qualcosa ma non sapeva cosa. Poi sentì una calma nuova diffondersi per il sistema nervoso, lontana dall’addormentamento, più simile al modo in cui i vestiti cadono sui manichini. Girò la faccia e fece in modo che il clitoride andasse ad occludere il meato dell’orecchio destro. Lì si fermo di nuovo. Si incurvò come fanno i gamberi alla cottura, prendendo il ginocchio destro di lei tra le proprie gambe.

    Cominciò a strofinarsi, il ginocchio di lei il cazzo di lui il ginocchio di lei il cazzo di lui pelle contro pelle pelle su pelle pelle nella pelle calore sempre calore sempre più calore l’orecchio caldo bollente spingeva l’orecchio l’orecchio era spinto spingeva l’orecchio l’orecchio era spinto. Rotto il silenzio non silenzio della stanza da un urlo senza lettere, corto come un osso, greve come un dolore, ma forte, forte, assordante. Gli era uscito dalla pancia come un bambino, come un amore.

    Era venuto, lei no.

    Gli sussurrò: “guardami, amore, guardami ora”.

    Lui non sentì niente.

    Qualche secondo riemerse come da un sonno con il mento la fissò.

    Salì per baciarla sulla bocca, ma no. Succhiò l’occhio sinistro poi il destro.

    Poi ancora quello sinistro poi quello destro.

    Con gli occhi chiusi lei fece per parlare ancora, poi si zittì, guardò, vide: rosa ovunque.

  • Aspetta

    Aspetta

    A un certo punto finiva l’inverno e ci riversavamo sulle spiagge. Alessandra veniva da Roma ed era piccola e bruna. Le gambe snelle, cotte dal sole. Gli occhi castani e gialli sul fondo.

    Prima giocavamo a pallavolo in acqua, sempre a pallavolo. Poi quando il sole calava, la sua mano piccola e forte prendeva la mia. Il primo anno c’erano stati i baci. Baci che mi dava prima a bocca chiusa, poi con la lingua. Il primo anno forse è stato il più bello.

    Sotto ai baci però era un continuo. All’inizio non c’era dolore, era solo una sensazione. Mi bastava vederla, Alessandra, da lontano, e il cazzo prendeva a spingere sul costume da bagno. Batteva.

    Questo lo sanno gli uomini, le donne non lo sanno.

    Smettila. Smettila.

    Ma era impossibile. Un giorno eravamo in acqua a giocare con altri, il sole picchiava e io mi gettavo in avanti per toccarle un ginocchio, non visto. Avevamo pudore di farci vedere. E mentre riemergo, un amico mi dice all’orecchio.

    Ti esce il sangue.

    Mi guardo il petto e vedo una cravatta di rosso, e rosso tutto intorno. Il naso.

    Alessandra ride, perché lo sa benissimo che è colpa sua.

    Mentre ci baciamo mi racconta del suo fidanzato d’inverno. Il fidanzato è più grande di me. È uno che picchia. La sera va in giro a tirare bottiglie piene di piscio alle prostitute.

    È uno di borgata. Dice.

    È uno stronzo.

    Ti ucciderebbe, se sapesse.

    Ride ancora e poi mi bacia più forte. Con la lingua sottile, come quella di un serpente. Sa di menta Alessandra, no anzi, di quelle erbette piccole e senza nome, che stanno nel fondo delle siepi e ti toccano il naso agli inizi di maggio.

    Ti prego, ti prego.

    Che? Lo sai.

    E ride.

    Aspetta.

    Il secondo anno mi chiede di più. Ci sta pensando, ma ancora non è pronta. Per lei rubo una canoa doppia. Tanto il bagnino mi conosce, la restituirò penso. Ci inoltriamo nei canali dietro le dune, dove il mare grosso si deposita in laghi di acqua salmastra, che sa di ferro. Isole di giunchi galleggiano, e ci sono gli aironi. Nell’acqua si sentono i pesci muoversi lenti. Sembra un po’ l’Africa. Vuole gettarsi nell’acqua melmosa.

    È acqua morta, scema!

    Ma a lei non importa, ha caldo. Si toglie il costume d’argento, se lo toglie tutto insieme come il serpente si toglie la pelle. Smetto di respirare. La sua vulva, i peli del sesso dai riflessi dorati. Faccio per toccarla, mi respinge. Si getta nell’acqua, la canoa rimbalza all’indietro e mentre oscillo il cuore che pulsa mi tappa le orecchie.

    Aspetto che riemerga, la tiro a bordo. Adesso odora di terra e di sangue e di fiori decomposti. Mi abbraccia, le gambe si aprono, la sua mano di nuovo prende la mia.

    Toccami.

    La tocco. Sulle dita ho la sabbia, il sale. Mi faccio largo piano, piano. Lei ride. Non lo sai fare.

    La osservo. Sempre il suo sorriso, una corona d’avorio che affiora dal corpo, perfetta. Quanto è sana.

    Faccio io.

    Così mi toglie il costume, e la sua mano bruna e piccola prende il mio cazzo, bianco e teso. Un braccio mi scivola in acqua mentre vengo, e penso di essere caduto dall’alto di un palazzo altissimo. Il seme le schizza sulle gambe. Alessandra continua a guardarmi negli occhi, e ride. Neanche lo guarda il cazzo. Il seme le cola sulle tibie, poi sul collo del piede, tra le dita. Alessandra immerge i piedi nell’acqua e si toglie lo sperma con noncuranza, la materia si raffredda, diventa grassa e densa. Piccoli pesci dagli occhi bianchi salgono dal fondale buio e se ne cibano.

    La riporto indietro.

    Aspetta.

    Cosa?

    Lo sai cosa.

    Poi si gira a guardarmi, ridendo.

    Mi scoperai. Cos’altro? Faremo l’amore.

    Quando?

    Aspetta, solo un altro poco.

    Quando?

    Domani.

    Domani l’aspetto, allora. Ma Alessandra non viene, e non verrà. Io sto lì come uno scemo, al sole. Col preservativo in tasca. Vado a cercarla, la sua amica è Maria: mi dice che è partita.

    I suoi finivano le ferie.

    E quindi? Chiedo.

    Quindi niente. È tornata a Roma.

    L’inverno mi piomba addosso. Ma io penso ad Alessandra. Non posso contattarla, non ci sono i cellulari non c’è niente. Durante l’inverno mi masturbo. Senza sosta, più volte al giorno. Anche pisciare diventa un problema. A parte questo, la sola cosa che mi riesca di fare è dormire.

    L’estate successiva mi getto allo stabilimento. La cerco ovunque, ma la gente sembra diversa, non mi ritrovo. Non ci sono le sue amiche. Alessandra non c’è. L’estate trascorre così. Provo a non pensarci, ma qualcosa mi brucia in pancia. Mia madre è preoccupata.

    Sembri un osso di seppia. Secco e bianco. Lo sono.

    Mi accosto allo specchio, ha proprio ragione lei. Sembro non averne più di sangue in corpo.

    L’ultima sera mi trascinano al falò, quello con cui si chiude l’estate. Mi passano una lattina di birra, fredda, gelata e mi ci attacco. Mi guardo intorno, il cuore mi salta un battito. Ben oltre il cerchio del falò noto un’ombra. I capelli, quel collo, faccio un passo in avanti senza accorgermene con la certezza di chi si è esercitato per mesi nel ricordo, ogni giorno. L’ho evocata fin troppe volte, a partire da pochi dettagli ho ricomposto mille volte un corpo.

    Alessandra.

    Alessandra si gira, ma non è lei. Potrebbe esserlo a dire il vero. I capelli, le mani, i piedi nelle infradito sono i suoi. Le orecchie pure, sue. E il volto potrebbe essere quello, ma a guardarlo bene no.

    No, sono Manuela.

    Dice, e mi sorride. Ma di nuovo, il sorriso non è quello, e gli occhi sopra non brillano della stessa luce. Poi capisco.

    Tu sei…

    Manuela annuisce.

    La sorella sì. Di Alessandra.

    Mi siedo accanto a lei. Con circospezione. Parliamo. Mi dice che i loro genitori si sono separati, e che la madre adesso sta con uno del nord e preferisce passare le estati in montagna, a camminare.

    Non credo la rivedrete. A lei qui non piaceva.

    Silenzio.

    Tu sei un suo amico? Amico, sì.

    La osservo. Non è bella come Alessandra, forse, ma soprattutto non ha quella cosa. Quella cosa che ti veniva voglia di averla anche tu, di rubargliela e tenerla con te per farti caldo in inverno. Anche se ti mette in pericolo, anche se ti brucia la pelle. Manuela sembra un osso di seppia, con le sue spalle chiuse e flosce, con il sorriso mite, la testa bassa. Gli occhi non si incurvano verso l’alto, non sono gli occhi di un lupo, ma quelli di una persona mite. Incapace di fare del male. Mentre parliamo succede una cosa però. Qualcosa succede. Che io mi vedo attraverso gli occhi di lei.

    Vedo me stesso, e ho gli occhi del lupo. Il sorriso che mi esce dal corpo è una corona d’avorio. Ho qualcosa adesso che potrebbe scaldare Manuela nel prossimo inverno, e qualcosa che potrebbe farla star male. La prendo per mano e la conduco sulle dune. Manuela non dice nulla, si fa portare.

    Mi abbraccia e socchiude la bocca, ma trema. Io la scosto, e lei rimane per qualche istante con gli occhi socchiusi e la lingua di fuori, come un gatto quando fa le fusa. Butto il telo per terra e la faccio stendere. Le tolgo gli shorts e le mutandine bianche di cotone spesso. Mi metto il preservativo e la penetro. Manuela mi abbraccia all’altezza della nuca, tanto forte.

    Vengo. Esco e mi tolgo il preservativo. Lei si rimette le mutande. Torniamo insieme al falò, gli amici stanno per andarsene. Manuela fa per darmi un bacio.

    Hey.

    Dimmi.

    Quando ci rivediamo?

    Aspetta.

  • Invisibile, ovunque

    Invisibile, ovunque

    La prima volta ho leccato il bordo del tuo lavandino.

    Ho visto che ti eri fatto la barba. Ti ho immaginato a torso nudo, l’asciugamano arrotolato sui fianchi, tu sporto leggermente in avanti concentrato nello specchio, e il tuo bassoventre appoggiato alla porcellana fredda.

    È bastato quel pensiero, come una scossa elettrica. Ho perso il controllo e mi sono cedute le gambe.

    Sono crollata su quella porcellana fredda, mi ci sono aggrappata.

    Ho chiuso gli occhi e ci ho passato la lingua.

    Una volta. Poi un’altra, poi un’altra ancora.

    Da allora, non mi sono più fermata.

    Oggi è lunedì. Giro le chiavi nella serratura, la porta di casa tua si apre. Come ogni volta, inalo forte. Il tuo odore mi arriva addosso come una mano alla gola, poi scende, e mi gira intorno come un cane che mi fa le feste. Mi fa male lo stomaco ancora prima di varcare la soglia, mi devo appoggiare. Respiro ancora più forte, provo a mandarlo giù. Per assumere ogni droga c’è una procedura precisa, e questa è la mia. Prendo più aria possibile e trattengo il fiato. Dio. Ti sento entrare dalle narici e diffonderti nel corpo, arrivare ovunque portato dal mio sangue impreparato e euforico, stalloni in panico al galoppo nelle vene. Chiudo gli occhi e sorrido.

    Eccoci.

    Mi gira la testa, va bene così.

    Io sono invisibile.

    Vivo al bordo esterno della tua vita.

    È una vita intera che sono invisibile. Mi sono abituata a prendere tutto il niente che riesco, e a farne il mio impero.

    Con una mano sopra al seno, cerco di regolarizzare i battiti. Tolgo le scarpe e le sistemo all’ingresso occupando, come sempre, il minor spazio possibile. Appoggio le borse per terra e mi richiudo la porta alle spalle. Mi ricompongo e dico a bassa voce, a nessuno -Ciao. Sono qui.

    Sono la tua donna delle pulizie.

    La tua donna me lo tengo in bocca come un boccone grosso, una preda vinta.

    La scorsa volta che sono venuta qui, venerdì, ho leccato il tuo pettine.

    L’ho leccato di lato. Tutto, dall’impugnatura all’apice. Poi sulla fila dei denti. I suoi denti, i miei denti. Uno a uno. Lì l’ho leccato piano, con la punta della lingua, un millimetro di lingua, una papilla gustativa sola, come se mi abbeverassi da un petalo. La mia saliva tra un dente e l’altro, come rugiada all’alba sui fili d’erba.

    L’ho leccato per un’ora intera.

    Le mie colleghe dicono che sono stata fortunata, che in questo palazzo ci stanno gli uomini puliti. È l’edificio più bello tra quelli che gestisce l’impresa, qui ci mettono solo le persone importanti. Alcuni si portano dietro la famiglia, tu no, però so che hai una moglie e due figli, l’ho visto nella foto che tieni in sala. Le mie colleghe dicono che spesso quel genere di foto se le ritrovano distese, con le cornici messe a dormire a pancia in giù, come a chiudere loro gli occhi. Loro le spolverano e non sanno cosa fare. Le più anziane le risollevano. Una mia collega dice che nell’appartamento che pulisce lei, il manager che ci abita lascia sempre la fede nella ciotolina un po’ defilata all’ingresso, insieme alle monete da due centesimi e qualche scontrino accartocciato. Tu si vede che in questa casa ci stai poco. Ogni volta sono pagata tre ore, ma c’è davvero poco da fare. I pavimenti rimangono puliti come li pulisco io, non cucini mai e anche il bagno lo usi appena. Ho visto che hai la borsa della palestra del residence. So che lì ci sono le docce e si possono anche lasciare i vestiti sporchi, ti restituiscono tutto lavato e stirato. A me rimane questo appartamento asettico dove cercare tracce di te. Una sola volta ho trovato le tue lenti a contatto, buttate nel cestino della spazzatura. Un cestino in vimini come nuovo, vuoto, senza nemmeno un sacchetto di plastica all’interno. Le ho recuperate dal fondo, le ho tirate fuori e le ho leccate con la punta della lingua. Come fossero capezzoli, come fossero piccoli insetti.

    Ti leccherei gli occhi.

    Te li terrei aperti tra l’indice e il medio mentre ti lecco l’orbita.

    La mia saliva come rivolo di lacrima tra le tue ciglia.

    L’ingresso dà su il tuo salotto. È una sala grande, luminosa. I divani mi danno le spalle. A volte ti immagino seduto a leggere, mentre ti volti e il tuo viso si illumina quando mi vede. Oppure penso che ti affacci dalla cucina, con il grembiule addosso perché stai cucinando per me. Ti immagino come voglio perché è l’unica cosa che posso fare. La mia zattera.

    Tu fai velieri? All’ingresso del residence, c’è un tavolo con le riviste specializzate del tuo settore, credo, e ho visto la tua foto sulla copertina di un giornale. Ho sentito un colpo al cuore. La tua azienda ha comprato uno stabilimento vicino al villaggio in cui sono nata. Mi ha fatto impressione vedere il tuo nome vicino a qualcosa di così lontano dentro di me, di così mio, schiacciato in fondo. Quella sera sono andata a leggermi il sito del quotidiano locale, ho trovato un articolo in cui parlavano di te, e poi dicevano che si cercano operai. Grandi investimenti, manodopera a basso costo, come capita spesso da quelle parti. Ci andranno a lavorare i miei compagni di orfanotrofio, forse anche mio fratello. Non lo so, con lui non parlo più da tanti anni. Però vedi? Giriamo tutti intorno a te, sei uno di famiglia ormai.

    Di carne, di corpo, ti ho incontrato una vola sola.

    Oggi sono fortunata, nel lavandino c’è la tazza con cui bevi il caffè al mattino. Lo prendi amaro, senza zucchero. Il cucchiaino non c’è mai. Nemmeno quello mi lasci.

    Nel silenzio assoluto intorno a me, anche io mi muovo senza fare rumore. Raccolgo la tazzina e la esamino attentamente.

    Piccolo tesoro, in controluce intravedo la parte dove hai appoggiato le labbra. Fisso il segno della tua bocca, questa mezzaluna sacra sul bordo della tazza, sul bordo della ragione. Me l’avvicino al viso, rimango ferma a respirarti. Odore di caffè, di ceramica fredda, impressione di uomo. Me la passo a pochi millimetri dalla guancia e poi appoggio le mie labbra sulle tue. Con un gesto preciso, religioso, ti ricalco. Aderisco, combacio. Mi sento. Comincio a succhiare.

    In residence come questi, i manager restano un anno, massimo due. Fra poco te ne andrai e io non avrò più niente di te.

    Succhio. Prima piano, poi sempre con più forza, come per estrarre il veleno da un morso. Come se ci fosse un nettare, come fosse l’unico nutrimento che mi tiene in vita, io succhio.

    Dove hai bevuto tu, io bevo te.

    Ci baciamo così.

    Quanto tempo passa? Ho un piccolo fremito e mi viene da piangere. Inizio a leccare. Lecco disperata, lecco lenta, poi di nuovo lecco come se stessi per affogare. Premo la lingua sulla superficie, sempre di più. Prendo il più possibile. Mischio le mie cellule alle tue. Deglutisco tutto.

    Quella volta che ti ho incontrato, sei stato gentile. Io ero venuta prima del solito, e tu stavi uscendo. Eri al telefono, parlavi in inglese. Quando ho aperto la porta e ho visto che c’eri, mi sono spaventata. Pensavo ti arrabbiassi, non avevo nemmeno citofonato, l’agenzia ci ha detto di farlo sempre, ma io ho perso l’abitudine, non c’è mai nessuno. Tu invece mi hai sorriso e mi hai fatto cenno di entrare. Hai continuato a parlare al telefono, e mentre entravo ci siamo sfiorati. Non ti avevo mai avuto così vicino. Non ho nemmeno avuto il coraggio di guardarti negli occhi. Ti sei chiuso la porta alle spalle e io sono rimasta immobile, non so nemmeno per quanto. Poi di colpo sono crollata per terra.

    A quattro zampe, ho leccato il parquet dove eri passato tu, fino a farmi male, fino a sentire dolore ai muscoli del collo. La mia saliva lungo il tuo passaggio, velo bagnato di sposa nel corridoio della chiesa. Ora tengo la tazza con entrambe le mani, la chiudo nella conca dei miei palmi e la guardo. Mi sale una frenesia strana, un’ansia. La lecco ovunque. Mi spingo dentro, tocco il fondo con la punta della lingua, lecco via il fondo di caffè, ogni residuo, la rigiro per non perdere nemmeno un millimetro della parete interna, risalgo sui bordi e inizio a leccare tutto l’esterno, con la lingua aperta, larga, come la lingua delle leonesse, come i pennelli piatti per le grandi campiture. Lecco. Vado avanti, ora con lentezza e meticolosa precisione, una pennellata alla volta. L’impugnatura, che tu terrai tra l’indice e il pollice, la succhio. La succhio come se tra le labbra avessi le tue dita, la stringo come se con quelle due dita tu sollevassi me.

    Sono Icaro in volo. Mi fa male la bocca, ma non voglio smettere. La lecco ancora, fino a sentire i muscoli della lingua che si induriscono. Io, anche, sono tutta bagnata. Mi fermo un attimo e la bacio piano. Riprendo fiato mentre la copro di piccoli baci. Ovunque, ora con labbra delicate e premurose che la sfiorano appena, come baciassi una bolla di sapone.

    Appoggio la tazza e la guardo. È il mondo che abitiamo insieme.

    Unico punto di contatto delle nostre due vite.

    Mi immagino te domani mattina. Tu che la prendi dalla mensola, la metti sotto al rivolo del caffè della macchinetta, la togli e te la porti alle labbra. Eccomi.

    La metto via così.

    La metto via umida della mia saliva.

    Eccomi, io ci sarò.

    La ripongo sulla mensola, sopra al suo piattino che non usi, girata sottosopra come le altre. Ma le altre le spingo più in fondo. Lei la lascio così, in primo piano, prima ballerina sul palco, come io non sono mai stata.

    Prendi lei. Prendi me.

    Sono invisibile. Non esisto.

    Però tu, domani, tra le labbra avrai me.

    Io che volevo solo pronunciarti.

    Tenere il tuo nome in bocca come fosse una cosa mia, una cosa naturale, che mi apparteneva come i denti, come il palato, come questa lingua, che ora passa sopra qualsiasi cosa ti appartenga.

    Cadi Icaro, è finito il tuo tempo, è ora di andare via.

    Raccolgo le mie cose e esco. Come ultima cosa, mi chino di sbieco sulla maniglia esterna della tua porta.

    Me la infilo in bocca, labbra strette e umide, lingua larga e calda. Una passata sola, tremano anche i muri.

    Stasera la prenderai in mano per entrare.

    Bentornato, amore mio.

    Non sai chi sono, non mi vedi, non mi ami.

    Io sono invisibile, ma io sono ovunque.

  • Bzzz

    Bzzz

    Era tremendamente nauseata.

    Inginocchiata sul gres porcellanato effetto legno – in ginocchio ma alta, la pelvi protrusa in avanti come a chiedere al vuoto un contatto, una superficie di contatto, una qualsiasi – non riusciva a capire se avesse bisogno di piangere o di ridere. Di sé aveva appena scoperto che: non riusciva più a creare niente.

    “Sono depressa? Sono senza pressione o piuttosto sono satura?” Roteavano gli occhi e si posavano come zanzare sugli oggetti della stanza.

    Una lampada: una lampada. Un oggetto qualificabile come lampada. Funzione: emettere luce. Requisiti: elettricità. Una lampada di Flos una lampada di Ikea una lampada di Artemide una lampada a led una lampada a petrolio la lampadina di Archimede l’idea l’ingegno il genio della lampada lampada stessa radice etimologica di lampo. Un lampo. Luce che divide il chiaro dallo scuro la materia dall’indefinito la questione dallo sfondo.

    Le si chiuse la bocca dello stomaco come il muso di una tinca. Nessuna emozione che questa lampada potesse suscitarle. Nessuna, nessuna. La guardava – ora come se fosse un’icona bizantina, un codice cifrato – no: la supplicava. “Se dev’essere luce che sia scura come una pozza. Se dev’essere elettricità che sia effervescente come una sorgente. Dammi qualcosa lampada, fammi sentire che tu esisti oltre il mio pensarti!”

    Si alzò di scatto, sollevò la canottiera macchiata di pulito e lasciò aderire al paralume la propria pelle. Inizialmente sfregò un po’ poi pensò fosse meglio fermarsi. Fermarsi e sentire. Voleva provare ad essere il paralume di un paralume. Finalmente immaginò la sua pelle come qualcosa di non assolutamente pelle. Si immaginò di stenderla come si stende un impasto ruvide le mani nodose di sua nonna non le mani i pollici.

    “Qualcosa di siderurgico nei pollici di nonna qualcosa di sacro quando il corpo si fa macchina” pensò, e accese l’interruttore della lampada. Non aveva occhi per guardare la sua pelle ma la immaginò come un impasto un tessuto attraverso il quale la luce avrebbe filtrato. Cosa avrebbe potuto illuminarsi? C’era ancora qualcosa di sé qualcosa di interno verso il quale provare curiosità?

    Si trovò annoiata di nuovo e desiderò figliare: “un figlio, si un figlio, un figlio muto, i suoi occhi nuovi, vivrei nei suoi occhi nuovi!” Ma fu l’eccitazione di un attimo, un respiro largo interrotto dal pensiero dall’immagine di una videocamera no di uno specchio che la mostrasse curva a coprire una lampada da tavolo. Si vergognò e di nuovo il percepire, la libertà del percepire, si interruppe.

    Non riusciva più a creare niente. Solo ricombinare i pezzi di una vita piena di pezzi, accostare colori in maniera leggermente più insolita per vedere l’effetto che fa. Ma quale effetto? Erano insetti quelle creature capaci di percepire colori che l’essere umano non riesce a cogliere? Zanzare, persino?

    Si fece bambina aprì le mani ad alette e si mise a svolazzare di qualche passo più verso la veranda. Fece bzzz con la voce e si vergognò di nuovo. Pensò: “i fiori non si vergognano. Nemmeno i gerani!” Le piacque come frase la buttò giù sul foglio come se fosse un mozzicone di sigaretta. Pensò ancora: “le piante si creano senza la volontà di crearsi. Non hanno bisogno di un pensiero per creare inflorescenze, alternanze di umidità e secchezze, trame sempre nuove. Si creano e continuano nella creazione, come un automatismo”.

    Si sentì trafitta da questa consapevolezza e trovò conforto nel pensiero che stava prendendo forma dentro di lei: “se non sono in grado di creare, sono in grado di distruggere. E perché non voglio distruggere gli altri, distruggerò me stessa.”

    Si accasciò sul divano come un cadavere ancora molle. Desiderò che qualcuno le tirasse i capelli come se non le facesse male. L’energia stava salendo in lei come l’antitesi di una primavera. Fiori che sbocciavano nel sottosuolo, pozzi di acqua scura dove nessuna traccia di lampadina nessuna traccia di parola.

    Prese la matita non la punta il culo. Non era grafite non era funzione quello di cui aveva bisogno per fare un’esperienza di sè. Matita come sonda: esplorava le proprietà dello spazio delle superfici. La bocca. Le labbra i denti. Morendo registrava, senza decodificare.

    “Come registra una matita?” pensò, e poi per punirsi si toccò l’ugola come per indursi il vomito. Voleva toccare il sé fuori dal coloniale fuori dal dizionario. Non voleva fare un neonato voleva essere neonato sentire la materia come la sente un neonato. Liberamente.

    Prese a succhiare la matita sentiva il sapore del legno. Le venne in mente un cazzo l’ennesimo cazzo. S’interruppe bruscamente e di nuovo toccò con il culo della matita l’ugola per resettare il processo. Era determinata: cercava nel proprio corpo uno spazio nuovo, libero. Voleva che la conoscenza morisse. Voleva perdersi nella sensazione.

    Rannicchiò i piedi sul divano e cominciò a sfregarsi i piedi come per accendere un fuoco. Sarebbe morta per autocombustione? O piuttosto voleva che qualcuno la bruciasse, la bruciasse viva? Le era diventato fin troppo chiaro che in lei c’era un istinto di autoconservazione che stava sabotando il suo proposito di dissolversi. “Da soli né si vive, né si muore”, e agguantò il cellulare come se fosse un’arma.